La medicina popolare, che esula da quella ufficiale per i metodi empirici di cui fece uso in tempi passati, era praticata da quelle comari le quali con le loro dicerie incantavano, contribuivano maliarde, medichesse, taumaturghi sostituendosi al Protomedico, al barbiere chirurgo all’erbaiolo; Tutti avevano la pretesa di guarire gli ammalati.

Grande importanza rivestì la figura dell’erbaiolo, considerato il mediatore della scienza medica e confusa a tratti con quella degli speziali veri e propri “aromatai” che successivamente darà vita al ramo dei moderni farmacisti.

Costui con le sue magiche erbe, che raccoglieva personalmente, preparava: tisane, decotti, infusi, impiastri e vini medicinali, alleviando molta sofferenza di quel popolino incredulo.
Nella sua bottega, ogni mattina, un via vai di gente accorreva per bere i decotti di malva, gramigna, e tante altre erbe preparati secondo misteriose ricette, per la cura di ogni male.

Queste erbe, caratteristicamente pendevano al di fuori della bottega e richiamavano con la loro presenza i vari avventori sicuri di trovare un rimedio per i loro malesseri.

Fasci d’erba di ogni sorta pendevano ad asciugare, la più comune la malva silvestris, pianta questa dalle foglie grandi e con le sue cime fiorite, offre eccipienti tonici ed emollienti e nello spesso tempo una proprietà espettorante.

I fusti rizomatosi della gramigna non mancano mai, da dove si dovrà ricavare il decotto per la cura delle infiammazioni.

All’erbaiolo la gente ricorreva ancora prima di recarsi dal medico. Egli traduceva, interrogava, diagnosticava e confrontava la sua diagnosi con quella rilasciata dal medico e il più delle volte riusciva a torcere il naso alludendo alla mala interpretazione medica; e a quel punto interveniva con una cura ricavata dalla sua antica esperienza trovando il rimedio più sicuro per levarsela d’addosso.

Mali comuni erano l’irritazione che il più delle volte era curata con un’abbondante decozione di gramigna o di malva che si prolungava per diversi giorni o addirittura mesi o anni.

Lo sciroppo di salsapariglia ricavato dalle radici di alcune piante in soluzione acquosa serviva a depurare il sangue, mentre il fiore di fico d’india essiccato e preparato con infuso di acqua calda serviva a far passare i calcoli renali; lo stesso decotto di un’erba particolare spaccava le pietre e per tale ragione era chiamata a “spacca pietri”.

Per tale occasione spesso per la cura della calcoli renale confezionava tutta una serie di “cartine” che il paziente a proprio domicilio preparava secondo prescrizione medica.

Le preparazioni più scrupolose vertevano naturalmente sulle specialità più richieste, poiché più prescritte, e specie su quelle a scopo depurativo, che i medici fino al secolo scorso usavano ordinare ai pazienti: di queste, se è caduto in disuso lo sciroppo di rose aurate un, decotto di petali di rose e di sottilissime lamine di vero oro.

Per alcuni mali particolari si confezionavano delle polveri “magiche” che erano ordinate da maghe e fattucchiere che il popolino consultava quando il rimedio medico tardava a risolvere il quesito clinico.

La polvere di attiramento serviva per ravvicinare i rapporti tra moglie e marito e bastava una piccola quantità nella minestra affinché dopo tempo funzionasse, la medesima cosa era per la polvere d’amore; ha riportare l’armonia ci pensavano i semi di pace e concordia mentre altre miscele provvedevano a diversi utilizzi più impensati.

Quest’arte, che si trasmetteva di padre in figlio per infinite generazioni, godeva di ottimi privilegi.

Si ritrovavano bottega, licenza e libri di ricette con determinate specialità di cui ogni dinastia di erbaioli possedeva i segreti, i successori che fin dalla tenera età passavano il loro tempo nel retro bottega a prendere dimestichezza con erbe e decotti imparavano i segreti della professione e quando ciò non avveniva la stessa corporazione, poiché nel frattempo i medesimi si erano costituiti in categoria, provvedeva a ricercare tra i giovani parenti o frequentatori il prosecutore di tale maestria.

 

Nella sua bottega, all’interno su di un gran bancone di marmo permanevano diverse “cannate”,boccali di terracotta con del contenuto color fulvo.

 

Si dipana un mobile con molti cassetti nei quali sono riposte le piante medicinali essiccate e pronte per essere incartate.

Erbe, fiori e semi sono tutti ben divisi per sacchetti o conservati in grandi recipienti di terracotta “burnìe” o di vetro o di un materiale più povero come la latta, dove fanno bella mostra in scansie annerite dalla polvere perenne.

Le pareti sono tappezzate di ogni specie di erba e ogni spazio e sfruttato fino a raggiungere la volta,si evidenzia un piccolo altarino con delle immagini votive che non manca mai, quasi a volere determinare come la guarigione di alcuni mali è da attribuire alla loro presenza.

Nel retrobottega era sempre presente un grosso mortaio di pietra dove era affidato soprattutto ai giovani apprendisti i quali con pestelli dovevano preparare polveri o ridurre in poltiglia le varie erbe.

E’ il caso dell’erba canapuccia dalla quale, pestata in continuazione e ridotta in poltiglia, si ricava una specie di lattice che unito al decotto di gramigna serve per decongestionare.

Completavano il laboratorio dell’erborista il braciere con dei grandi recipienti di rame che servivano per ammollare e decollare, utilizzando per le varie operazioni diversi utensili: mestoli, schiumarole, crivelli di differenti misura, stringituri di diverse grandezze usati sia per separare sia per ricavare mediante la compressione olii come quello di mandorla.

Ogni erba ha il suo tempo balsamico per la raccolta e, per poterle essiccare servono sapere precise regole come per la loro conoscenza, bisogna distinguerle e sapere delle loro proprietà medicamentose e la giusta dose e l’esatto tempo di bollitura per preparare i famosi decotti, il cui principio attivo e fatto bollire a fuoco lento in acqua o le tisane di cui l’associazione di più erbe dosate e preparata versando acqua calda su di esse e lasciate a riposare per poi filtrare il tutto e addolcite con miele o zucchero.

Per i vini medicinali si adoperavano delle erbe essiccate di cui si facevano macerare nel vino: è il caso del Vermut, vino medicinale bianco o rosso drogato con infuso di sostanze amare creato a Torino nel 1786 ed importato in Sicilia dai Florio, affinato per le gentili signore col tempo divenne un vino da dessert, il suo principio attivo che è l’assenzio serviva a curare la mal digestione; purificava il sangue e faceva dormire.

Delle piante si utilizzano tutte le parti: corteccia, foglie, fiori e radici per quest’ultima un antico erborista monrealese da novant’anni cura le fastidiosissime emorroidi utilizzando una radice di una pianta erbacea che cresce in tutti i luoghi in Sicilia.

Avendola in mano subito si avverte un senso di benessere, per una settimana tenuta in tasca dei pantaloni o comunemente come facevano le nostre nonne in un sacchettino di stoffa aderita sui vestiti per mezzo di un “spìnguluni” si noterà una certa diminuzione della flogosi.

L’emorragia che è un sintomo che si presenta copiosamente, si va riducendo dopo la seconda fino a guarire del tutto.

La pianta interessata è il Verbasco (Thapsus Verbascum) si raccoglie la radice, tutto l’anno, si taglia un pezzetto avvolgendola e mettendola in tasca; dopo una settimana si cambia con una fresca.

La cura va adottata fino a quando la sintomatologia scompare del tutto.

Le erboristerie moderne non sono più gli erbuari di una volta, che utilizzava le erbe per le preparazioni, tuttavia oggi il loro impiego è utilizzato nella fitoterapia e nella fitocosmesi preparate in serie da frettolose industrie chimiche e farmaceutiche.

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