Parlare di uno degli aspetti di questa città, è cosa difficile, esistono particolari luoghi che conservano segreti che pochi sanno svelare, uno di questi sono i mercati, quella che vi voglio proporre è un’ideale passeggiata nel suo centro storico fatto di contraddittorie influenze e provocazioni dove questi luoghi ci appaiono con la loro presenza quasi furtiva di aver rubato spazio alle sue incantevoli strade dove da secoli stazionano.

Da recente nelle sale cinematografiche è uscito in programmazione un film di Wim Wenders, che ci mostra questo aspetto attraverso il suo protagonista che ignaro visita la città di Palermo alla ricerca di queste suggestioni (Palermo Shooting).

La nostra passeggiata può iniziare dalla gente che popola questa città, la sproporzione è una delle chiavi interpretative per comprendere appieno la loro anima: qui non sembra mai esistere una via di mezzo.

Ogni visitatore potrà verificare questo assunto immergendosi in una delle strade principali, via Maqueda, arteria che, insieme alla parallela via Roma, la percorre da un capo all’altro.

Basterà percorrere pochi metri dai “quattro Canti di città”, l’incrocio principale della città, chiamato croce barocca o, se preferite, “Teatro del Sole”, i tratta di un punto di incontro dei due assi viari più antichi di Palermo: il Cassaro e via Maqueda.

Immettersi in via Roma, scendendo pochi gradini ci si introdurrà in uno dei posti più caratteristici di Palermo: il mercato storico della “Vucciria”.

Questo da sempre è stato l’ingresso principale, un enorme trambusto di gente che urla, sarà il segnale della presenza di una enorme piazza dove tutt’ora si svolge il celebre mercato.

Il più noto, anche perché ad esso Guttuso ha dedicato una delle sue tele più celebri: la Vucciria.

Muovendosi all’interno e attraversando il fitto intreccio di vicoli e piazzette si possono ritrovare tutti gli ingredienti della cucina tipica siciliana.

Difatti il mercato si estende lungo le via Cassari, la piazza del Garraffello, la via Argenteria nuova, la piazza Caracciolo e la via Maccherronai.

Qui è possibile acquistare le mille erbe aromatiche assolutamente indispensabili per la riuscita dei piatti regionali più gustosi:l’addauro (alloro), il basilico, il prezzemolo, l’origano, il finocchietto selvatico, i capperi di Pantelleria, l’uva passolina.

Il suo etimo deriva dal francese “Boucherie”, “macelleria” e come è facile comprendere, un tempo, vi si vendeva la carne, oggi è il pesce che fa da padrone, i banchi che attorniano la piazza emanano gli odori caratteristici che pervadono il posto, anche se il tipico odore di pesce risulta certamente il più intenso, accanto ad essi non mancano le bancarelle con della frutta e della verdura.

Particolare e ammiccante è vedere il pesce-salato (baccalà) in acqua che sgorga da una specie di rubinetto in una tinozza stagnata con grossi pezzi di pesce ammollati per depurare il sale.

Sanno di sale “arrancitusu” i “buatti” di sarde salate e aperte a portafoglio dalle abili mani del “saliaturi” sopra un tozzo di legno e diliscati, stessa operazione ripete per l’aringa.

Nel corso dei secoli la Vucciria subì diverse modifiche, il viceré Caracciolo nel 1783 decise di cambiare l’aspetto del mercato, ed in particolare della sua piazza principale, che, in suo onore, fu chiamata col suo nome.

Intorno alla piazza si costruirono dei portici che ospitavano i banchi di vendita, al centro fu sistemata una fontana per permettere l’approvvigionamento idrico.

La “Vucciria”, infine, è nota praticamente in ogni parte del mondo e nonostante il degrado conserva tuttora colori e sapori del tutto particolari.

Sorge su terreni bonificati a partire dal X° secolo e si pensa abbia origine angioina, anche perché frequentatissimo tutti i giorni, soprattutto dai turisti, resta una delle più interessanti testimonianze del passato di una città dai mille volti.

Botteghe ricche di ogni prodotto della terra (attrezzi), sorgono pure ai “Lattarini”, tra via Roma, piazza Borsa e via Alessandro Paternostro, dove prima arrivava il mare.

Il nome deriva dall’arabo, significa “mercato dei droghieri” e tutta la zona conserva ancora dei tratti tipicamente medievali, una curiosità… la stessa strada con la medesima denominazione, ancora oggi si può ritrovare a Gerusalemme.

Antica è anche l’origine del mercato dei “Calderai”, dove un tempo si trovavano parecchi artigiani costruttori di caldaie e di secchi, come è testimoniato da un atto notarile del 1376, nel X° secolo, fabbri ferrai operavano anche vicino al quartiere dell’Albergheria, poi in quello degli Ebrei, a questo proposito, ancora oggi qui è possibile acquistare oggetti realizzati a mano, a prezzi vantaggiosi.

Il mercato storico di “Ballarò”, come nei suk arabi, la strada che penetra al suo interno è letteralmente invasa dalle bancarelle su cui sono esposte le merci, quasi difficile a camminare, in alcuni tratti è la gente per inerzia ti spinge ad andare avanti.

 

 

“Ballarò” che ha dato recentemente anche il nome ad una trasmissione televisiva, ha una storia ben più misteriosa, visto che per risalire alla sua nascita ci si affida alle testimonianze di un viaggiatore arabo, il quale ritiene che già nel X° secolo si sia formato un grande insediamento di piccoli negozi di generi alimentari proprio in tale luogo.

Tuttavia, il documento più antico che ne parla, risale soltanto al 1827, secondo lo studioso Michele Amari, la sua caratteristica denominazione, potrebbe riferirsi al luogo dove i contadini vendevano le loro mercanzie e derivare, quindi, dall’Arabo “suq–al-Balari”, è tale perché i prodotti provenivano dal casale Balera, nei pressi di Monreale.

Tutto intorno è un pullulare di colori, profumi e grida, queste ultime, cantilene dal sapore orientale le cui parole sono decifrabili solo da veri esperti, reclamizzano i prodotti in vendita.

I venditori creano quella musica capace di penetrare con assordante cantilena in dialetto palermitano, dentro i padiglioni auricolari dei passanti, (“abbanniare”) invitando ad acquistare la loro merce o cantano canzoni con il pretesto di schermire il proprietario della bancarella.

C’è di tutto: dagli alimentari, ai profumi, alle stoffe, alle scarpe, al pesce, principale polo di attrazione restano i grossi pentoloni di rame “quarara” da dove scaturisce del fumo invitante, sono “robba” bollita: patate o le “domestiche”, carciofini, cipolle, “carduni”, “pollanche”, peperoni e fagiolina che solo a Palermo i nostri fruttivendoli sanno apprestare.

La verdura disposta a parte: zucchine lunghe all’inpiedi, broccoli (cavolfiore) “stipati” uno sopra l’altro, “sparaceddi” (broccoli), “tenerumi” (i calli della pianta di zucchine) “stinnicchiati e ammugliati”, melanzane a “munzieddu”, “cacuocculi”(carciofi) a fasce.

Al mercato”americano” si trovava tutto quello che si può immaginare: panciere, reggiseni, stoffe, pellicce, giacche di pelle, scarpe, abiti da sera, costumi da bagno ecc., era il mercato di via Casa Professa a pochi metri da Ballarò, oggi rimane solo una bottega che ricorda il tempo passato.

Fare una puntatina al “Capo” significa entrare in pieno nella tradizione della città, di origine araba, è stato così chiamato per via della sua posizione ed è circondato da splendide chiese barocche.

Esso rappresenta l’antico Seralcadio dall’arabo sari-al-qadi, rione del Kadì, denominata così la parte superiore, nel suo antico ventre si estende l’omonimo mercato formato da un quadrivio di vie dove il suo asse principale è costituito dalla via Porta Carini che porta l’ equivalente titolo della settecentesca porta, riedificata riferendosi all’originale quattrocentesca, che in quel periodo conduceva attraverso la campagna a Carini e dalla via Beati Paoli dall’ innominata setta di incappucciati da cui a tratto il nome di un’antica storia, molto romanzata, che tra sei e settecento, proprio in questa via, si riuniva segretamente in una grotta per punire chi perpetrava iniquità e soprusi nei confronti dei deboli e degli indifesi, incrociandosi con una strada che ha mantenuto la stessa caratteristica di mercato popolare, la via Cappuccinelle da un lato e la via Sant’Agostino dall’altro con la vendita di “ruttame” e “vistita”.

Dove trasuda opulenza e magnificenza, ma nello stesso momento, scadimento e limitatezza, prologo grandioso di proteine e vitamine, carboidrati e calorie mascherate da ogni sorta di genere commestibile.

Uno stretto budello si allarga e si restringe tra le bancarelle che si proiettano dal di fuori in cui esse stesse nascono “i putii”, la gente lo rende impraticabile perché si sofferma ad osservare, pattuire, tastare e comprare.

Fondamentalmente il mercato è sempre stato luogo particolare per la vendita della carne, anticamente nelle vicinanze esisteva il macello civico detto “bocceria nuova” per la macellazione di becchi e altri animali, diverse sono le “carnezzerie” (termine dialettale conseguente alla dominazione spagnola) e non macellerie come vengono comunemente chiamate, presenti e, le beccherie “chianche” che vendono carne di castrato tagliata tradizionalmente nella “chianca” (dal latino planta), un grosso ceppo d’albero, da qui la definizione.
Altro particolare, che stupisce, nel vedere i quarti di carne appesi al di fuori della bottega, usanza sopportata, da quella che fu la presenza ebraica in città, per depurare l’animale del suo sangue, caratteristica è l’esposizione di capretti e agnelli in determinati giorni prefestivi, completamente privi di pelle tranne la coda che mantiene il ciuffo che fanno da quinta come sfondo al negozio.

Interiora (quadume), fegati e milze, testicoli e trippa, testine d’agnello e piedi di porco li vende il carnezziere, “mussu”, “carcagnuola” e “masciddaru”, le bancarelle di frattaglie che si apprestano insieme alla “frittula”, un misterioso paniere che riserva delle sopprese.
Palcoscenico merceologico fatto di tende dai multicolori, dove il sole a stento riesce a penetrare e, di grosse lampade accese anche a mezzogiorno e per tutta la mattinata, e qui che la milza diventa “meusa”, fatta ballare nel grasso bollente e stipata nel pane e mangiata per strada.

Nella folla si confondono i venditori nomadi che propongono ai passanti cucina di strada: “sfincione e “sfincionello” cauru e “ scarsu uogliu e chiinu di puvulazzu”.

Ci sono i “riffaturi”, con la lotteria privata, le loro “carrozzelle” (solo il telaio) girano con il trofeo, con un biglietto si può sperare di vincere la spesa per una settimana, una cesta di pesce o una parte di carne o dei soldi o altro genere inerente al consumismo.

I loro clienti non sono mai occasionali, gli stessi detentori e gestori di “putia” partecipano a questa strampallata riffa garantendo allo stesso il suo prosieguo.

Emerge dai banchi di vendita la facciata barocca della chiesa dell’Immacolata Concezione, che a guardarla da fuori, nasconde le magnificenze conservate all’interno, vero trionfo del barocco fiorito palermitano, orgoglio delle sue maestranze locali.

Quello che più colpisce sono le preziose decorazioni a “mischio e tramischio” apparate lungo le pareti dell’unica navata di una cappella di un ex convento di clausura, rimasta miracolosamente integra dopo la distruzione del suo annesso convento.

Gli arabeschi marmi policromi intarsiati secondo un’antica tecnica che solo le maestranze bizantine riuscivano a creare quell’effetto pittorico di cui la tradizione a saputo tramandare.

 

Via Sant’Agostino prende il nome dall’omonima chiesa trecentesca, mentre via Bandiera, naturale prosecuzione della prima, venne così chiamata perché su palazzo Lionti, nella stessa strada, si poteva vedere un putto marmoreo che sorreggeva una bandiera.

“Borgo Vecchio” che sorge alle spalle del teatro Politeama e si allarga fino alla costa, poco distante dal porto, in realtà, le sue botteghe multicolori sono particolarmente recenti, essendo sorto intorno al 1860, dopo il fallimento di un altro mercato popolare ed ha un carattere prevalentemente ortofrutticolo.

La frutta sistemata e “apparata”, secondo la loro colorazione ed effluvio: giallo, rosso, arancione, verde, viola, ecc., senza tralasciare le altre mercanzie comuni agli altri mercati.

Nelle vicinanze della Cattedrale tra il corso Alberto Amedeo e la via Papireto esiste la piazza Domenico Peranni, intitolata all’ex sindaco di Palermo che governò verso la fine dell’ottocento.

La piazza composta da una strada centrale ad attraversamento con ai lati due marciapiedi alberati, ha dato la possibilità a dato negli anni cinquanta a dei rigattieri di stazionare sopra le banchine, i propri oggetti all’interno di casupole in legno e lamiera utilizzando come principale sostegno la presenza degli alberi, prestando così a poco a poco corpo a quello che ormai tutto il mondo conosce come “il mercato delle pulci di Palermo”.

Il mercato, è una mostra permanente dell’antiquariato italiano e in particolare di quello siciliano, si apre proprio in questa piazza che i palermitani chiamano del Papireto, denominata così per via del laghetto dei papiri che crescevano, in antichità in questo luogo.

Si possono trovare oggetti antichi, mobili vecchi e curiosità varie, fra cui sempre più frequenti oggetti di modernariato degli anni ’60 e ’70.

L’attraversamento stradale, consente ai visitatori di scrutare, cercare, mercanteggiare e acquistare di tutto: pezzi autentici, anticaglie, patacche, quadri, libri e soprattutto mobilio antico e ristrutturato con pezzi vecchi secondo un certo stile.

Si trovano i “lavamanu” di ferro smaltato con “vacili e bucali” che a volte era anche in pesante maiolica, di solito completava l’arredamento “d’u ritre”, quando nelle case non c’era ancora l’acqua corrente, oggi si utilizza per decorare le camere da letto.

Letti di lamiera smaltati con intarsi di madreperla, tipici dei primi del novecento siciliano, “tulette” ballerina con la “balata” di marmo e con lo specchio girevole tramite l’asse orizzontale che il retro conteneva sempre una rappresentazione di una giovane donna ammicchevole.

Questi sono i luoghi dove da millenni si ripetono gli stessi gesti, che essi siano alimentari, tanto che i palermitani li definiscono le piazze di “grascia”, non sanno di meno le altre attività commerciali in cui il tempo si è fermato.

Quello che più stupisce dei nostri mercati è la semplice vitalità immersa nel disastro della modernità, che da sempre fanno di questi, il più grande teatro a cielo aperto: il teatro della vita.

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