Palermo ha dimenticato il suo mare, tuttavia è una città di mare, gran parte del suo confine naturale è rappresentato dalla costa, da nord ovest a sud est le acque del tirreno lambiscono il suo territorio.

Foto e testi © Carlo Di Franco

Lungo questa costa sono diverse le località o borgate costiere dove l’attività principale è dedicata soprattutto al mare: Sferracavallo, Mondello, Vergine Maria, Arenella, Acquasanta, nei territori limitrofi: Aspra e Porticello ad est, Isola delle Femmine e Terrasini ad ovest.

All’interno degli attuali confini della città vi è il suo antico porto, la “Cala” che si insedia nel suo ventre terriero con i vecchi quartieri Santa Lucia, San PietroSant’Erasmo e la Bandita, oggi del tutto dimenticati.

Esso pullulava di minuscole imbarcazioni che giornalmente uscivano, chi per pescare, chi per trasportare merci o sabbia sottratta con operosa fatica proprio dal mare, quest’ultima attività continuò fino agli anni sessanta.

E queste imbarcazioni a remi avevano una loro caratteristica specifica conformemente all’uso che se ne utilizzava per il tipo di pesca o trasporto da fare, a costruirle era prerogativa dei “mastri d’ascia” che a Palermo i pescatori chiamavano “i mastri consaioli” o i “conza varchi”, erano più artisti che falegnami, erano loro che impostavano la barca, dallo scheletro, allo scafo definito.

Essi si avvalevano di un’antica esperienza tramandata da padre in figlio per generazioni, per realizzare, a mano con l’aiuto di un particolare strumento detto appunto “ascia”.

Le barche più costruite erano quelle utilizzate per la pesca sotto-costa ed erano costituite dalla classica “lancitedda” (lancia) e “dall’uzzarieddu” (gozzo), chiamato in dialetto palermitano “vuzzarieddu”, molto più diffuso della lancitedda”, aveva delle caratteristiche particolari: una lunghezza di sei metri circa e una caratteristica principale, la prua molto più alta della poppa, garantiva una buona manovrabilità e una buona velocità, tanto da essere sopportato per varie attività di pesca, principalmente veniva impiegato per la pesca costiera.

Un’imbarcazione palermitana specifica era il tradizionale “schifazzù”, barcone tuttofare per il trasporto di cose e persone; era usato soprattutto per il trasporto della sabbia, dei conci di tufo, del pesce, specialmente tonno, tutti impieghi legati alle tradizionali attività del territorio palermitano.

Alla tradizione propriamente palermitana appartiene la “Capaciota” barche ampie e leggere, solide ed eleganti, adatte alle migrazioni lontane, così chiamate dagli isolani dal nome del borgo di Capaci, che allora comprendeva anche Isola delle Femmine, questa imbarcazione era adatta per la pesca “a tratta” delle sardine e acciughe difatti i pescatori palermitani la chiamano “sardara” per il tipo di rete utilizzata per la pesca riguardante le sarde.

La “sardara”, questa imbarcazione singolare palermitana, aveva la lunghezza di circa dieci metri con prora svasata leggermente in fuori e con la poppa a rientrare e relativo prolungamento di ruota, più di un metro, che era sagomato a coda di sirena e denominato “acidduzzu”, la motrice avveniva con quattro remi e una vela latina.


Le “capaciote” palermitane, venivano di solito costruite a Mondello Paese, a poca distanza da Palermo, presso il cantiere della famiglia Cancelliere, alle spalle dell’antica Tonnara, in via Mondello.La “alalungara”: tipica barca per la pesca dell’alalunga, un pesce non raro nelle coste palermitane, ma con caratteristiche simili alla sardara.

Per la sua costruzione si utilizzavano le abituali essenze legnose del pino calabro, abete, gelso e leccio, la sua larghezza era un terzo della lunghezza e le parti vitali, chiglia, ordinate, dritto di prora, dritto di poppa e braccioli erano di quercia mentre il fasciame di larice e pino, le sovrastrutture erano realizzate in pino, l’albero soprannominato ordinariamente “l’antinna” (antenna che serviva per armare una vela latina) in pitch pine ad olio di lino e i remi in faggio.

Carmelo Cancelliere era in grado di realizzare una “sardara” di trenta palmi, interamente a mano, adoperando soltanto martello, scalpello e sega.

Per costruire una lancia, cioè una barca con fianchi larghi, impiegava circa un mese e mezzo, a lavoro ultimato, non solo costava quanto una di diverso materiale, ma avrebbe utilizzato i pochi arnesi del mestiere come: ù chianozzu (pialla), scarpieddù (scalpello), tinaglia (tenaglia), martieddù (martello), raspa, raspino, lima, spinnarola.

Per il tipo di pesca maggiormente praticata si è sempre usato lo strascico, questa era eseguita dalle “paranze”; prima dell’affermarsi dei motori diesel sulle barche, qui erano costruite paranze di legno lunghe 12-14 metri, armate con la vela latina (triangolare) e fiocco, e più volte lavoravano in coppia.

Il Pitrè, con riferimento alla sua pubblicazione su gli usi e costumi dei pescatori, ci informa sulle “paranze” dicendo che la paranza, natante da commercio, pranzi, paranze, sono barche da pesca ad un albero, le quali pescano a due, tirando ciascuna una rete (lo strascico).


In verità essa è un comunissimo “gozzo” che remando in coppia riusciva a trainare la pesante rete, bilanciandosi a poppa con delle zavorre, costituite da contenitori riempiti d’acqua.Precisa in più che il gozzo o guru in palermitano, i guzzialori coloro che praticano un tipo di pesca con questa barca.

Un gozzo più leggero era il “palangaro” che era utilizzato per la pesca ai grossi pesci pelagici, una caratteristica di questa imbarcazione era il prolungamento della ruota di prora che sembrava un grosso uncino, con la punta aguzza.

“La varca di palangaru è quasi il doppio del gozzo comune e serve alla pesca del merluzzo (gadus merlucius), a prua, attaccato alla ruota, si leva per di più di un metro e mezzo il campiuni, che serve tanto per appoggio dei pescatori”.

Dice ancora che c’era la “tartana”, che era una barca da carico e peschereccia ad un solo albero e per solcare un vela latina, la varca di nassi di Palermo, barca a remi ed a vela, porta come uso due nasse legate al campione di prua, la varca di sardi citata nella pesca speciale delle sardelle e la “varca savurrera” che si adopera oltre che per trasporto di zavorra a pesche diverse.


La lavorazione aveva inizio con la scelta del legno,
“ù conza varchi”, nella sua mente aveva già impresso il disegno del modello da realizzare esclusivamente a mano secondo la sua tipologia e per ogni parte abitualmente utilizzava diversi tipi di essenze: il gelso per l’ossatura, il nespolo per la chiglia, il pino di Svezia o il polentino, un legno simile all’abete  per il fasciame cioè la copertura della barca.

Nel cantiere approntato spesso all’aperto o in fabbricati di fortuna all’interno di un borgo marinaro o situato in prossimità di un porticciolo per facilitare il “varo” dell’imbarcazione ultimata, recano ancora i segni immutati del tempo con i pochi arnesi, lavorano e sagomano il fasciame per realizzare: lo scheletro che è formato dalla chiglia, sotto-chiglia, ruota di prora e contro ruota, dritto di poppa dove a suo tempo verrà istallato il timone con la barra.La struttura della barca, è basata su un sistema a incroci, essa varia al diversificare delle zone in cui ha origine e presenta diverse tipologie che vengono tramandate da generazioni a generazioni, difatti ogni borgata palermitana conserva scrupolosamente la propria scuola di consa-varchi.

Completano lo scheletro, le ordinate a sorta di costole posti trasversalmente alla chiglia da prora a poppa a breve distanza fra loro e distanziate per grandezza per formare lo scafo.

A chiusura reticolata delle ordinate vengono poste delle “serrette” che attraversano tutto lo scheletro in senso orizzontale, dove a suo tempo vengono applicate le tavole per il fasciame esterno e forma “il pagliolo” di tavole per il fondo amovibile.

Chiude il costolato delle ordinate, la bordatura che forma l’orlo superiore dei fianchi della barca chiamata “falchetta”.

Infine lo scheletro da poppa a prua, il fasciame esterno applicato sempre in senso orizzontale. Nelle tavole esterne verso il sottochiglia inizia “il torello” e il “controtorello” che daranno all’imbarcazione  una particolare forma del fasciame atta a formare la chiglia per “planare” l’acqua durante la navigazione, tagliata dall’asse di prora.

Lo scafo così realizzato interverrà un altro artigiano (ormai quasi scomparso) che, per evitare le infiltrazioni d’acqua, le barche erano opportunamente impermeabilizzate dai “mastri calafati o calafatari”, lu calafataru (il calafato).

Erano coloro che incatramavano le barche di legno per evitare le infiltrazioni d’acqua introducevano, tra le fessure di una tavola e l’altra dello scafo (tra i “camenti”), della stoppa di canapa che successivamente impermeabilizzavano con del catrame.

Questo nobile mestiere, tramandato di padre in figlio, esiste ancora oggi ma ormai i Calafati sono molto rari perché oggi i pescherecci o le barche sono costruite in ferro o in vetroresina (specialmente quelle da diporto).

Anche nell’ambito della realizzazione della barca persistono alcuni antichi rituali confermati da ritrovamenti archeologici di navi romane.

In alcuni cantieri, infatti, ancora oggi, si usa inserire nella struttura della barca, una medaglietta dorata in un piccolo apposito vano ricavato nell’incastro tra chiglia e dritto di prora.

Uno degli ultimi cantieri, che continua a vivere ancora a Sferracavallo e che insiste nella tradizione tramandandola da padre in figlio è quello del Sig. Stefano Costa con una attività incessante da mezzo secolo trasmessa a suo figlio Nicola il quale costruiscono barche alla vecchia maniera, il figlio adeguandosi alle innovazione mettono in pratica la loro esperienza costruendo una barca “A Lancitedda” in vetroresina con inserti di legno, per soddisfare le esigenze dei nuovi “predoni” del mare.

A dare un’anima a questa nuova imbarcazione interamente in legno ci 

pensavano i “pingisanti” che erano artigiani, pittori che davano vitalità visiva e scaramantica alla barca.

Conviventi del faticoso lavoro che si svolgeva nel mare, questo mezzo di attività o di trasporto, era arricchito e nobilitato dall’arte popolare con motivi legati all’intelligenza, all’antico gesto dell’uomo.

E’ un fatto immediato, oltre che un utile preambolo, quello di legare a un unico fondo dell’arte popolare, due mondi tanto diversi.Le maggiori espressioni di arte popolare in Sicilia sono cariche di allegorie e messaggi simbolici, come nel “carretto” che era figurato nelle sue parti con raffigurazioni e simboli, ma anche la barca con motivi più semplici subisce questo simbolismo.

Colorate di giallo, rosso, blu erano dipinte secondo tecniche utilizzate in pieno ottocento, a dare manifestazione a quest’ arte, provvedevano i “Pingisanti”, il perché di questo appellativo era dovuto al fatto che costoro disegnavano l’immagine del Santo protettore nell’imbarcazione  custodi di una cultura popolare tramandata da secoli e molto sentita dai pescatori committenti.

Fasce grandi e piccole s’alternano, seguendo il senso della chiglia, con i vari motivi ornamentali e simbolici, è la parte più preziosa della decorazione era anticamente quella superiore che sovrastava la prua, sul rostro o “telamone” o “talamuni” come lo chiamano i pescatori.


Il simbolo è posto a protezione della vita nell’attività quotidiana, quale schermo preposto alla difesa ma anche quale emblema offerto alla speranza di prosperità.Questa fascia dell’orlo, per la sua varietà cromatica, dava un tono di fasto a tutta l’imbarcazione e offriva l’occasione di avere confronti con la decorazione dei carretti, nel nostro tempo del tutto scomparsa.

Il rapporto tra l’uomo e il suo mezzo di trasporto-strumento di lavoro, diviene così fortissimo, superando la logica che spingerebbe a considerare il proprio carro, o la propria barca, un semplice “mezzo”, si dice generalmente che, nel relativo repertorio figurativo, il sacro si mescola al profano.

 

Probabilmente invece, il simbolo apposto che comunemente è considerato profano, assume qui un valore sacro.

Mentre nel carretto si rappresentano delle scene tratte da un repertorio “storico”, nella barca emerge, nella sua purezza, la rappresentazione isolata del simbolo “arcaico”.

L’oggetto simbolico è, infatti, rappresentato con estrema chiarezza espressiva, nitido, su un fondo di colore bianco, quasi a voler farsi notare dalle creature del mare, o per specchiarsi bene sull’acqua, quando il mare è tranquillo.


Alla barca si da un nome, un nome femminile, e quando si va in mare, ci si reca come con una compagna.

La sistemazione delle immagini è sia a prua sia a poppa, ma, mentre a prua abbiamo una raffigurazione deputata a difendere dalle insidie del mare a poppa generalmente si collocano simboli augurali di buona pesca, il repertorio è codificato: si dipingono occhi, sirene, cavallucci marini, angeli, fiori, spade, cuori o semplicemente scritte augurali.

L’oculus – occhio sacro -, è preposto all’individuazione di una rotta priva di pericoli, e mentre l’occhio rappresenta la vigilanza, lo stare allerta, la doppia natura della sirena, metà donna e metà pesce, o del cavallo marino, metà cavallo e metà pesce ci conduce nel mondo del mito, e ci rappresenta, il 

particolare rapporto del pescatore siciliano e palermitano in genere con il suo mare, attingendo da certe credenze popolari.

“Sogliono fare dipingere sul campione di prua i santi Cosimo e Damiano, protettori dei pescatori, su quello di poppa, l’Arcangelo Michele sull’opera morta di prua, la leggendaria Sirena, le cui forme in Sicilia offrono varietà ed anche differenze notevoli.

L’opera morta è tutta pitturata a lunghe strisce e con vari ornati 


Quanto per adornamento, alla sua base, dalla parte interna è dipinto secondo l’uso l’immagine di una santa o di un santo, al campione di poppa, più basso e all’esterno un ostensorio, in giro sull’opera morta della barca sono pitturati festoni di fiori, frutta, uccelli, a poppa ed a prua verso il tagliamare, angioletti”.
regolari e simmetrici, verso poppa, presso il timone, armato della manovella (jaci), sull’orlo della murata, è una carrucola (curriuola) per trarre dal mare dei pesci e nelle due murate, n.6 scalmi (scalmi) armati di remi con i soliti zig-zag in rosso, dal terzo superiore in giù verso la pala.

In questo modo riferisce il Pitrè in merito alla colorazione delle imbarcazioni palermitane che i pescatori del vicino rione “San Pietro” solevano farsi improntare dai “pingisanti”, questi non tendono alla narrazione, ma qualcuno vuole ricordare sulla barca l’ex voto dedicato alla Madonna o a uno dei Santi che si ritiene abbia fatto il miracolo.

Anche i colori delle barche possiedono una loro simbologia, essi sono nitidi e decisi: Il color rosso, con cui spesso si usa dipingere la struttura dello scafo, è ricollegabile all’antica usanza propiziatrice di quando si bagnava la chiglia con il sangue di un animale sacrificato.

Il legno usato era il gelso, anch’esso simbolico poiché produce un frutto che ha come caratteristica principale un succo rosso intenso.

Tutto ciò non deve stupire se si considera che la navigazione sull’acqua, si eleva a metafora della vita in molte antiche culture e rende la barca simbolo essa stessa di un attraversamento, il mezzo che riporta alla dimensione ultraterrena.

Come emblema di tutte le barche per quanto riguarda la colorazione e il simbolismo comunemente si prende in esame la “Capaciota”:

esternamente la barca aveva la carena impeciata e quindi nera, murata a fasce di giallo, di verde, di bianco col trincarino blu oltremare; il capo di banda (bordo superiore dello scafo) era blu, il supporto del levatoio di poppa grigio, chiglia e timone bianchi sopra il galleggiamento, grigio scuro sotto il galleggiamento.

Per quanto riguarda la colorazione interna: da prua fino alla prima paratia grigio perla; fra le due paratie e i banchi, grigio perla; dalla paratia poppiera fino a poppa rosso mattone; le tavole del carabottino di prua e di quello di poppa erano calafatate e se erano di legno pregiato non erano dipinte altrimenti erano grigie.

La coperta era rossa perché veniva dato il minio, un composto di piombo, che serviva per proteggere il legname così come il color ruggine verdastro del fondo della barca, cioè della parte immersa, che veniva verniciato con vernici a base di ossido di rame per proteggere il legname dall’attacco degli agenti marini.

Un cavalluccio marino o una sirena a colori vivaci e occhi apotropaici neri con fondo bianco, esaltava la prua.

Nella barca questi piccoli misteri, insieme all’anonimato dei pittori, accrescono l’interesse per queste variopinte imbarcazioni che fanno spaziare la mente umana.

A Terrasini presso il museo di Palazzo D’Aumale esiste un’esposizione di modellini di barca in scala, realizzati con rigore filologico da Filippo Castro, delle principali imbarcazioni a propulsione remo-velica e poi a motore, in uso in Sicilia fino agli anni Cinquanta.

Sono in vetrina modellini di barche siciliane utilizzate per la pesca costiera del pesce azzurro e per la pesca a strascico, principalmente si possono notare quelle palermitane come la sardara, il buzzu, per la pesca con le nasse, a palangaro e talvolta anche con reti a sacco.

Il gozzo, per la pesca generica costiera e notturna con la fiocina, la lancia, per la pesca con il palangaro, lo schifazzo, tipica imbarcazione da carico dell’Ottocento, modelli di motopescherecci, usati per la pesca con reti da circuizione (cianciolo) o con reti a strascico (paranza).

Sono inoltre esposti alcuni modelli di sardara, buzzu e schifazzu realizzati a scafo aperto a scopo didattico per evidenziarne la struttura e la tecnica costruttiva.

Inoltre l’esposizione è corredata da fotografie che attestano i tipi e le tecniche costruttive ancora in uso e che affondano le loro radici nella più remota antichità, pur adoperando, in alcuni casi, tecniche, materiali e strumenti naturalmente più evoluti.

La relazione della presenza degli ultimi cantieri navali operanti nella Sicilia occidentale, che lavorano con sistemi tradizionali, dove attestano le molte tecniche, un articolato e cospicuo filo che lega indissolubilmente “l’antico” con “il moderno”, non soltanto nella cantieristica, ma in generale in tutto ciò che riguarda il mare.

Bibliografia:

Giuseppe Pitrè :
La famiglia, la casa, la vita del popolo siciliano – ed. Il vespro rist.an. Pa 1978.

Francesco Riccobono – Simone Aiello:
“La pesca Artigianale a Palermo” – Ed. associazione Posidonia – Palermo 2001.

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