Per i palermitani la Settimana Santa rappresenta il culmine della propria fede cattolica, dove tutto è centrato sulla rievocazione della passione di nostro signore Gesù Crocifisso, morto per noi per la nostra salvezza, in questo spazio temporale.

Testi e Foto @Palermoweb

I palermitani vivono la sequenza narrativa della commemorazione religiosa cristiana dove la parola pasqua è sintesi di rinnovazione e di transito dalla vita alla morte della natura, partecipando in tutti i rituali ora come testimone o semplicemente attore per fede e tradizione familiare.

E’ con la Domenica delle Palme che ha inizio una serie di rituali che raggiungono l’apice con il giorno della Resurrezione.

In città, le parrocchie organizzano una rappresentazione in cui il parroco è accolto al tempio al di sopra di un asinello e, tutti gli astanti fanno accoglienza con ramoscelli d’olivo e con grandi pale di palme intrecciate per ricordare l’entrata di Gesù a Gerusalemme, segni questi di un clima festoso e data la particolarità della festa, anticamente era usanza sfoggiare un abito nuovo simbolo del rinnovo primaverile.

La Settimana Santa entra nel vivo nelle celebrazioni del Giovedì Santo. Dopo le celebrazioni liturgiche, vengono allestiti i “Santi Sepolcri”, o meglio “altare della reposizione” il rituale vuole che i devoti usino onorare il Cristo morto con la loro visitazione.

(ndr. Nella realtà si fa memoria dell’istituzione dell’Eucarestia, ed è il Corpo e Sangue di Cristo che reposto nell’altare riccamente adornato viene venerato dai fedeli. Noi palermitani invece abbiamo sempre pensato e pensiamo che venga venerato il Cristo Morto che nella realtà storica muore il giorno dopo.)

Nei tempi passati intere famiglie, subito dopo la cena, andavano in giro per le chiese. Per tradizione in genere se ne visitavano tre, il numero della Trinità, i più indiscreti ne vedevano cinque o sette, sempre in numero dispari.

L’indomani era consuetudine chiacchierare con amici e parenti e illustrare una propria classificazione in merito alla loro magnificenza.

In questo periodo, il rinnovamento della natura, e quindi il germogliare delle piante cresce il fiore della “Passione” simbolicamente attribuito al periodo pasquale.

Questo fiore nella sua entità presenta i simboli della passione di Gesù Cristo: i tredici apostoli, la corona di spine, i tre chiodi ecc.

Si racconta che quando Gesù Cristo pendeva dalla Croce, nelle tre ore di agonia, una goccia del suo sacramentatissimo sangue venne a cadere sopra una pianticella, questa seccò, si sparse il suo seme per terra, germogliò poi, e diede il fior di passione.

L’aspettativa più importante è incentrata per la giornata del Venerdì Santo dove la teatralità viene vissuta lontano dalla rigidità delle forme canoniche della Chiesa ufficiale. Il ciclo commemorativo della Passione viene celebrato in molte parrocchie, nel pieno silenzio religioso, ove si svolge la rievocazione delle ultime ore che Gesù visse in questa terra. I sacri testi puntualizzano che gli avvenimenti che finirono con la Crocifissione si svolsero proprio il Venerdì.

Ma è la Morte che è più rappresentativa, dove la drammatizzazione emerge il dominante contenuto umano della sofferenza, resa visibile dalla rappresentazione del simulacro della Madre Addolorata che segue la “vara” del Cristo morto, secondo un rituale processionale funebre consolidato da anni da parte di diverse confraternite che si preparano a questo evento tutto l’anno.

Le strade del vecchio centro storico e quelle delle periferie si animano al passare del fercolo dell’Addolorata secondo l’iconografia di un retaggio che è una ripercussione dei lasciti della cultura spagnola. Ancora oggi in città come Valencia e Siviglia si svolgono processioni praticamente identiche alle nostre.

Mantello nero, espressione dolente e riservata, stiletto o rosa di pugnali trafitti nel cuore, aiutano alcuni fedeli che per devozione vestono i propri bambini ad richiamare lo strazio della Madre, a condividerlo esternamente.

L’urna di vetro contenente il simulacro del Cristo morto, una pala di palma intrecciata viene posta a capo del fercolo, la “vara” coperta di fiori, così come si usa per il letto di morte di qualsiasi defunto.

I confrati vestiti in abito scuro, alcuni in smoking, con guanti neri in segno di lutto, i portatori con l’abitino nero, pronti a trasportare a spalla la “vara”, “accuddati” secondo la tradizione rinsaldata nel tempo.

Ancora una volta rivedremo le processioni dei “Cocchieri”, dei “mutilati di guerra”, dei “Cassari”, dei “Fornai”, della “Soledad”, dell’Ecce Homo all’uditore, dell’Addolorata alla “Guilla”e quella di piazza “Ingastone”, del SS. Crocifisso a “Pietratagliata” e quella del Monserrato alle “Croci”, quella di “Falsomiele”, della “Passione del Signore” a Borgo Nuovo, ecc.

Tutti con un identico rituale, prima segue la “Croce”, gli incappucciati, poi i Romani simbolo del potere, i “Giudei” accompagnano l’urna del Cristo morto con le classiche armature, le donne con i segni esteriori di una immane tragedia davanti alla “vara” dell’Addolorata che segue quella figlio morto.

Il corteo si muove faticosamente per le vie dei quartieri al suono lugubre della “troccola” ed intervallato dal ritmo “lamentoso” delle bande musicali che cadenzano la processione, giorni prima in tutte le chiese “s’attaccavanu li campani”, ed erano solo questi i suoni che si udivano.

Si adoperano per fare strada i “Tammurinara” che con il loro suono travolgente dei tamburi listati a lutto annunciano il passare della processione.

Essi hanno annunciato in precedenza la “cattura” che prevede la sfilata degli incappucciati per le strade del quartiere secondo un percosso prestabilito ed con passo funereo compiono il penultimo atto prima della passione.

In passato vi era una consuetudine, ormai scomparsa, per il divieto inequivocabile delle autorità ecclesiastiche di fare attraversare questi cortei per strade diverse alla vara del Cristo e al fercolo dell’Addolorata, allo scopo di permettere l’incontro tra la madre ed il figlio, provocando oltre la commozione generale, anche la rabbia dei fedeli ed inveire contro romani e giudei, che più delle volte erano tartassati con il lancio di pomodoro, uova ed altro.

Il sabato sera il rituale religioso, il più lungo della Settimana Santa, prevede la liturgia della luce, il fuoco di un falò di ramoscelli d’ulivo farà risplendere il cero pasquale, simbolo di Cristo risolto.

Il cero pasquale sarà immerso nel fonte battesimale, dove l’acqua fonte di vita, rigenera la natura, cadranno i drappi viola che oscurano nelle chiese i simboli della fede, una volta era questo il momento in cui la liturgia prevedeva il canto dell’Exultet (Gloria) subito dopo avveniva “ ‘a calata d’a tila”, la discesa delle grandi tele che venivano poste nelle principali chiese cittadine in modo da coprire l’intera zona del presbiterio dove è situato l’altare maggiore.

Ne emergeva un trionfante Cristo risorto, con in mano un coloratissimo labaro rosso, simile a quello che comunemente viene infilzato sulle “picureddi”.

Esse venivano poste il mercoledì delle Ceneri e venivano tirare giù il sabato santo, dei estesissimi teloni monocromatici creati dalle abili mani di modesti pittori, spesso ignoti, in un periodo tra il settecento e l’ottocento, raffiguranti di solito episodi della Passione e morte del Cristo, comunemente era la crocifissione il soggetto più richiesto.

Le campane suoneranno a distesa, per annunciare la grande festa: la Resurrezione e, tutti gridano alleluia…

Ancora oggi, il convento dei Domenicani a piazza San Domenico, come la parrocchia di Sant’Ippolito a Porta Carini hanno rispolverato questa vecchia consuetudine, brandello di antiche Pasque.

Il giorno di Pasqua è un tripudio per la famiglia palermitana, la mattina per i componenti il nucleo familiare era consuetudine sfoggiare l’abito nuovo, la passeggiata era inevitabile, le mete erano il giardino “Inglese” o a piazza Marina, quest’ultimo luogo deputato a giostre dove i bambini si sarebbero sicuramente divertiti.

Una delle principali attrazione della festa di resurrezione è la fiera dei giocattoli, “a fiera di Pasqua”.

Essa si svolgeva nell’immensa piazza Castello, un grande semicerchio di baracche di legno, dentro a cui di giorno e di sera, pigiasi una folla enorme, tutto intorno è un pandemonio, bimbi che corrono di qua e di là per accattivarsi il giocattolo preferito.

E’ uno strepito infernale di fischietti, di corni, di tamburelli e di trombette, è un vociare, un gridare, uno schiamazzare incessante, in questa baraonda c’è chi si diverte.

Era il pranzo che aggregava tutti i familiari ed amici, i giorni di quaresima si era provveduto a mangiare “a precetto”, ma Pasqua si celebra a tavola, per tradizione non doveva mancare il capretto o l’agnello, arrostiti alla brace o in modo classico “agglassati” con le patate, oppure al forno, era abitudine che si mandava a cuocere dal “furnaru”.

La carne di capretto assai più delicata di quella dell’agnello, che ha un gusto piuttosto forte ed un odore acre, non sempre piacevole, chi non poteva si accontentava dello “spezzatino” contornato da tante patate.

I primi solitamente erano due: la pasta con la “coratella” di capretto, cioè l’insieme delle interiora dell’animale, comprendente cuore, fegato, polmoni, rognoni e trachea in umido o la classica pasta con la salsa di estratto di pomodoro con la carne “capuliata” (trita).

Una volta si festeggiava Pasqua mangiando uova sode, perché l’uovo come simbolo per eccellenza della nascita e per conseguenza della rinascita di Cristo, si regalavano i “pupi cù l’ovu”, oggi ci sono soltanto quelle di cioccolato.

Da un retaggio del pupattolo con l’uovo sodo, che assumeva la forma di uccello, ci viene la “colomba” personificazione della tradizione ebraica pasquale.
Secondo l’uso, mangiavano agnello o capretto e poi un dolce, a forma di colomba, per simboleggiare lo Spirito Santo.

In tempi moderni, periodo dell’industrializzazione, si provò a produrli in serie i primi furono la “Motta e l’Alemagna” imprenditorie dolciarie.

Ma il dolce per eccellenza resta la “cassata alla siciliana”, come non deve mancare le “picureddi” di pasta di mandorle teneramente adagiate su un verde prato di erbetta finta e disinvoltamente munite di una bandierina rossa, simbolo del sangue versato, con una stellina d’oro personificazione del Redentore Resuscitato.

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