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PANORMUS - LUOGHI

Le torri di Ballarò

A Palermo dopo che fu costruita la via Maqueda nel XVII secolo all’interno della città murata si vennero a creare quattro porzioni di territorio urbano che avevano il loro fulcro al centro, localizzati dai quattro canti, che formavano un cantone.

Ogni cantone veniva designato da un Mandamento il quale prendeva il nome dal monumento più rappresentativo.

Nel caso del mandamento Palazzo Reale, esso è rappresentato dal palazzo dei Normanni antica sede reale e vicereale, ma comunemente definito l’Albergheria dal nome del più esteso dei quartieri che lo formano, poiché all’interno essi costituivano il mandamento.

Il mandamento è delimitato da un’area quadrata, dove a monte è individuabile oggi dal corso Re Ruggero, a settentrione dalla via Vittorio Emanuele, ed est dalla via Maqueda ed infine a sud dal corso Tukory.

Anticamente questa porzione di territorio era attraversata da un torrente chiamato Kemonia dai normanni, un tumultuoso fiume che per la sua impetuosità spesso straripava e inondava il territorio circostante, per questa causa, nel XVI secolo esso venne interrato per mezzo di un condotto sotterraneo e deviato verso il fiume Oreto.

Il suo letto colmato divenne una strada che si può identificare con l’asse viario costituito dalla via Porta di Castro, piazza Casa Professa e le vie del Ponticello, Calderai e Giardinaccio.

A sud-ovest di questo antico fiume si formò nel periodo federiciano l’albergheria, nome che fu dato dalla presenza degli abitanti di Centorbi e di Capizzi che furono trasferiti in questo luogo dalle città d’origine per essersi ribellati alla volontà di Federico II.

Quartiere molto animato per via della presenza di numerose attività artigianali che fino a pochi anni fa vi si svolgevano e sia per l’esistenza del “mercato di Ballarò”, già presente nel decimo secolo e descritto dal viaggiatore Ibn Hawgal che ne raccontò le caratteristiche.

Così definito in periodo arabo dal toponimo “Bahlarà”, villaggio che si trovava nei pressi della cittadina di Monreale, da dove pervenivano i prodotti venduti nella piazza di “grascia”, cioè di prodotti alimentari, che compare in alcuni documenti che deformarono il nome del luogo nella esclamazione popolare di “ballarò”.

Sorto nell’omonima piazza del quartiere, che formava il crocicchio tra la via Porta di Castro e la via Casa Professa, successivamente occupò l’asse principale che porta a piazza “Carmine” per giungere al limite delle mura cinquecentesche sul corso Tukory.

La predisposizione, la collocazione delle botteghe “putie” e delle mercanzie, andare in giro tra le bancarelle a “smirciare” (guardare), gli odori e i colori ricordano il tipico mercato arabo “suk”, dove suoni, voci e lingue diverse si intrecciano per un unico fine, la scoperta delle proprie entità storiche attraverso il cibo.

Nel periodo che intercosse tra il XVI e il XVIII secolo nel quartiere sorsero numerosi palazzi signorili che si stanziarono tra la via Maqueda e la via del Bosco e, due grandi complessi conventuali quello dei padri Gesuiti detta comunemente “Casa Professa” perché adibita ai padri Gesuiti professi e, quello dei Carmelitani che successivamente diedero l’opportunità di costituire un successivo rione definito del “Carmine”.

Nel percorrere strade, vicoli, cortili e piazze di questo quartiere, non è raro imbattersi in tratti di fortificazioni o di basamenti di torrioni di varie moli e consistenza, edificate durante il corso dei secoli, pochi esemplari svettano ancora a perenne ricordo, altre meno fortunate sono state inglobate in palazzi e chiese o strutture civiche o abbattute per far posto a nuove organismi architettoniche.

La piazza antistante la chiesa del Gesù chiamata piano di “casa professa” si delimita sopra l’antico letto del fiume Kemonia e, si esibisce come una quinta mostrando la grande facciata adagiata al di sopra di una scalinata che copre un rialzo orografico un tempo ricco di avallamenti dove si aprivano diversi ingrottati e acque sotterranee.

La chiesa aperta al culto nel 1633, fu in parte distrutta dai bombardamenti del 1943, la semplicità dell’esterno si compensa con il ricchissimo e sovrabbondante interno: pilastri, colonne, cappelle, altari, pareti sono completamente “ricamati” con finissime lavorazioni in marmo, la cosiddetta decorazione a “ marmi mischi”, così chiamata per l’uso di materiali di diverso colore, una avviluppante trama di figure allegoriche, statue, medaglioni, cornici riempiono ogni centimetro di spazio con una risultante effetto d’insieme grandioso.

Attorno alla chiesa si estende la vastissima area conventuale della casa vera e propria circondata da due chiostri di cui uno in un secondo tempo divenne l’atrio della futura Biblioteca Comunale e, l’altro fino al vicino palazzo Marchesi edificato alla fine al XV secolo, successivamente l’atrio divenne il cortile dei PP.Gesuiti, l’attuale edificio staziona nella piazzetta dei "SS.Quaranta Martiri al Casalotto".

Questo palazzo appartenuto ad alla nobile famiglia palermitana Marchesi era stato costruito come propria dimora e si mostrava chiusa come una fortificazione e, possedeva una modesta elevazione turrita con tanto di merlatura e marcapiano, essa era utilizzata per difendersi dagli attacchi dei pirati che il vicino mare originava.

Nel 1568 i Gesuiti approfittando della presenza della torre che rimase con le medesime qualità specifiche costruttive, solo nel 1731 ne ridussero l’elevazione e vi schiusero dei battenti e nello stesso tempo vi innalzarono l’autorevole campanile della loro chiesa che si trasformò in un vero miracolo d’eleganza architettonica.

Ritornando nello spiazzo di “casa professa” si penetra nella piazza Brunaccini dove si viene accolti da un portale in stile neoclassico con un pronao costruito nel 1823, questo rappresenta l’ingresso principale della biblioteca comunale, accanto ad esso insiste la chiesa di San Michele Arcangelo, la cui origine si fa risalire al XII secolo, la sua riedificazione avvenne nel corso del XVI secolo.

Affiancata al vestibolo della chiesa, vi si trova un’altra torre di modeste dimensioni, costruita per conto della cittadinanza palermitana nel XV secolo si mostra come un poliedro quadrato intervallato nella sua lunghezza da diverse aperture strette che indicano delle feritoie per la difesa, il suo ingresso risulta sopraelevato rispetto al piano di calpestio.

Il materiale utilizzato per la sua costruzione risulta essere di pietra arenaria dalla forma irregolare che sicuramente vennero ricavate dal sottosuolo dello stesso sito visto che nei paraggi il fiume solcava creando ingrottati.

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