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 Personaggi palermitani

GIOVANNI FALCONE

Magistrato, nato il 20 maggio 1939 e morto, vittima di un attentato mafioso, a Capaci il 23 maggio 1992.

Nacque in un edificio (oggi non più esistente) di via Castrofilippo presso la Chiesa della Magione, e, insieme a Paolo Borsellino, è divenuto l' uomo simbolo della lotta alla mafia e alla criminalità.

All'indomani dell'agguato a Cesare Terranova (25 settembre 1979) presentò domanda per entrare a far parte dell'Ufficio Istruzione, che in quella data era guidato da Rocco Chinnici e che accolse di buon grado la richiesta.

Presto si trovò a lavorare accanto a Paolo Borsellino e da quel momento la collaborazione tra i tre grandi protagonisti della lotta alla mafia proseguì ininterrotta.

Dopo la morte di Chinnici (29 luglio 1983), la direzione del cosiddetto "pool antimafia" venne assunta da Antonino Caponnetto e si trovò così a lavorare accanto ai magistrati migliori di cui disponesse in quel momento l'Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta, Giuseppe Di Lello.

Furono proprio gli uomini del pool antimafia a costruire, tessera dopo tessera, grazie anche alle confessioni dei due grandi pentiti di mafia, Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno, il primo maxi processo contro 474 imputati, un evento giudiziario senza precedenti in Italia, che dimostrò come l'unico strumento giudiziario efficace per la comprensione e la valutazione di fatti di mafia fosse proprio l'indagine su più imputati e più reati.

Insieme a Borsellino trascorse l'estate del 1985 all'Asinara per stendere l'ordinanza di rinvio a giudizio dei tanti imputati per il maxi processo che ebbe inizio a Palermo il 10 febbraio 1986.

Gli anni successivi al maxi processo furono contraddistinti da amarezze, critiche, polemiche, invidie di molti suoi colleghi, accuse di presenzialismo, di protagonismo o, peggio, di essere un professionista dell'antimafia (espressione usata da Leonardo Sciascia in un'intervista al «Corriere della Sera del 10 gennaio 1987).

Nel gennaio del 1988, il Csm (Consiglio superiore della magistratura) gli preferì Antonino Meli come capo dell'Ufficio istruzione di Palermo, nonostante Antonino Caponnetto, che aveva lasciato l'incarico alla fine dell' 87, lo avesse indicato come unico successore possibile.

Il 20 giugno 1989 (all'inizio di un'estate che risulterà avvelenata da sospetti e dalle lettere anonime del cosiddetto corvo del Palazzo di Giustizia), sfuggì ad un attentato dinamitardo presso la sua villa all'Addaura.

Lasciò Palermo nel marzo del 1991 nominato direttore generale degli Affari penali presso il Ministero di Grazia e Giustizia a Roma con la speranza (rivelatasi poi un'illusione) di potere contribuire, in maniera diversa, alla lotta alla mafia.

Fu assassinato con un attentato dinamitardo lungo l'autostrada di Punta Raisi, in prossimità di Capaci, al ritorno da Roma.

Con lui caddero la moglie Francesca Morvillo, 45 anni, anch'essa magistrato, e i tre agenti di scorta Rocco Di Cillo, Antonio Montinaro e il palermitano Vito Schifani.


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