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PANORMUS - GASTRONOMIA PALERMITANA

LA GASTRONOMIA DI STRADA

Palermo, adesca anche i sensi con la sua cucina, traboccante e variopinta con odori e sapori singolari, costa almeno di tre particolari aspetti gastronomici:

la prima elaborata dai famosi “Monsù” francesi, riferendosi a quella barocca delle case aristocratiche, che la nobiltà teneva in grande considerazione e tramandata fino ai giorni nostri;


la seconda cittadina o popolare, formata di piatti semplici e gustosi, molto vicina a quella vita contadina che la città a perso da tanto tempo, è la rielaborazione di piatti nobili con l’uso di elementi semplici parafrasandoli a quelli nobili.

Ad esempio “le sarde a Beccafico” sono paragonate a quei uccelletti uccisi durante le battute di caccia della nobiltà;

la terza è la popolare cucina di strada palermitana, gestita anticamente dai “buffittieri”, dal francese bouffet, cioè tavolo, bancone, alimenti che serviti su un ripiano, spesso improvvisato, dove si vendono per la strada.

Considerata la più antica e ineguagliabile cucina, perdurata nel tempo, grazie al gusto dei palermitani di secoli fa tramandato come retaggio a quelli di oggi.

Adoperata nelle città greche siciliane, ben presto si diffuse in tutta l’isola, già 2.500 anni fa si vendevano nel “thermopolium” verdure bollite, assieme a interiora bollite o arrostite sulla brace, ciarpami di carne e pesce fritto, che si poteva mangiare sul posto o portare a casa, oggi diremmo che questo genere di asporto si possa riferire al moderno fast-food alla palermitana.

In tempi più ravvicinati e fino a qualche anno fa persisteva la “tavola calda” che c’è la tramandarono gli arabi.

Ormai radicata in tutta la città, questi cibi si possono gustare in vari luoghi distribuiti percorrendo le sue vie in negozietti ed ambulanti o in bancarelle improvvisate nei mercati di “grascia” palermitani (Ballarò, Capo, Vucciria e Borgo).

Comunemente questa cucina di strada si può suddividere in tre gruppi: la gastronomia del pane, vale a dire dalla farina elaborata in maniera diversa del pane comune, si possono realizzare vivande più ricche e complesse.

Nasce dalla farina di grano, un pane speciale “lo sfincione, grossa sfoglia di pasta lievitata con uno spessore abbastanza ragguardevole, condita con salsa di pomodoro con l’aggiunta di cipolla, pezzettini di acciughe e caciocavallo a scaglie, il cui nome con molta probabilità deriva dal greco “sponghia” (spugna) per la sua morbidezza.

In forme più piccole, “lo sfincionello”, venduto nelle carrettelle del venditore ambulante “ù sfinciunaru” che lo tiene sempre caldo grazie ad una piastra sotto cui vi si alimenta una fonte di calore, e lo invita con la sua voce “Che bellu ù sfincionello, è scarsu d’ogghiu e chinu di puvulazzu”, per alludere nei tempi antichi quando le strade erano polverose e l’olio era un condimento considerato un lusso.

La “pastella” è una pasta di farina un po' molliccia ottenuta frustando la farina con l’acqua in abbondanza aggiungendo una presa di sale e una parte di lievito, lasciata a riposare per un certo periodo di tempo, (almeno un’ora) dopodiché si immergeranno delle verdure che “metteranno la camicia”, cioè un sottile velo di pasta, solitamente broccoli (cavolfiore), carciofi (cuore) e cardoni (cardi) che immersi in una padella con olio caldo verranno fritti.

Specialità queste che vengono vendute nelle friggitorie stanziali o improvvisate, un’altra pietanza simbolo della cucina di strada è il “pani e panelle”, quest’ultimi una sorta di “schiacciata” di piccole dimensioni, di un bel colore dorato di farina di ceci.

Associate alle panelle più delle volte ci si immettono le “crocchè” comunemente conosciuti dai palermitani come “cazzilli”, richiamandosi alla loro forma fallica.

Realizzate con purea di patate “viecchi” vengono fritti con abbondante olio caldo, hanno un gusto particolare che gli viene dato dall’associazione di una manciata di prezzemolo o mentuccia nella purea.

Il rito del consumo si svolge nel “panellaro” locale o davanti a quelli girovaghi con la “lapa”, ma la panella, oggi ha lasciato i luoghi di produzione e si è trasferita nelle case dei palermitani.

Anticamente dalla lavorazione delle panelle si ricavava la “rascatura” cioè si raschiavano i tegami e si aggiungevano degli aromi che aggiustavano il gusto, fritta nell’olio bollente era un’altra prelibatezza della cucina povera.

Un richiamo alla cucina di derivazione araba e diffuse in tutta l’isola, la loro culla è Palermo del caratteristico timballo di riso tondo a forma di una grossa arancia sono le “Arancine”.

Avvolte con una crosta di mollica di pane, l’interno del nucleo di riso giallo dato dal colore dello zafferano “zafarana” è ripieno da una salsa di pomodoro con piselli e carne tritata “capuliata”, nella sua forma classica, una delle diversificazione è quella al burro o agli spinaci o prosciutto e mozzarella.

Vendute principalmente nelle friggitorie e rosticcerie, nei tempi antichi alcuni ambulanti forniti di triciclo con cassone a contenitore girava per le vie e smerciava oltre quelle di tipo classico, anche quelle ripiene di gianduia, dove prima di mangiale venivano intinte in una ciotola ripiena di zucchero.

“E’ sunnu cà carni”, abbanniava l’ambulante che richiamava l’attenzione dei passanti, “quelle vere”.

Classica è la vendita che viene effettuata nel giorno di Santa Lucia, il 13 dicembre, i palermitani per devozione alla Santa si astengono nel mangiare pane e si abbuffano di arancine.

Questa divagazione gastronomica continua con la gastronomia della carne più povera le “frattaglie” riferibile a quelle interiora della animale meno nobili, definiti prodotti di scarto o “surrogati” della carne troppo costosa per i palermitani e utilizzata solamente in alcuni giorni della settimana e nelle festività importanti, ma ugualmente appetitosi perché preparati con particolare dovizia che li rende ammalianti.

Eccellenti da mangiare davanti al deschetto, conditi con sale e limone ben fornito, o apparecchiati in un piatto con l’aggiunta d’olio, alla maniera di insalata, serviti dal venditore di “mussu” (orecchie e muso di vitello), “carcagniola” e “fruntali” ( i piedi del vitello), i primi si sgranocchiano a “stricasale”, i secondi si tagliano a pezzi, e “masciddaru” ( la testa del vitello dove vengono estratte la parte più carnosa: la mascella).

Mascella, lingua, orecchie, muso, piedi, mammelle (virina) e nerbo: tagliati e bolliti in acqua lessata, fatti raffreddare e distesi sul banco su delle foglie di lattuga, si vendono a tocchetti.

Una figura taciturna e ritrosa è “u frittularu”, immerge la mano misteriosamente in un contenitore, la cui caratteristica è un “panaru” appoggiato su di un cavalletto, un paniere addobbato con “mappine”, canovacci di cucina a quadri, portando con se una manciata di “ciccioli” e con un gesto rituale le deposita sopra un piccolo foglio di carta oleata (anticamente prima che fosse stata inventata questo tipo di carta si adoperava le foglie di fico o noci) poggiata nella mano sinistra dell’avventore che accerchia questo particolare deschetto, è la “frittula” avanzi di cartilagini animali fritti nella “saimi” (strutto).

Questi scarti di carne erano originariamente, verso il quindicesimo secolo, un prodotto della lavorazione dello strutto “saimi”, usato dai palermitani per friggere, prima che i conoscenti ebrei ci abituassero ad usare l’olio d’oliva.

La “saimi”, dallo spagnolo “sain”, prodotta nel vecchio mattatoio del rione “Capo”, veniva ricavata dopo la bollitura ad alta temperatura di questi residui (muscoli, cartilagini e tessuti molli), si produceva questo estratto liquido e raffreddandosi diventava condensato e bianco che successivamente riscaldato nelle casseruole ritornava al suo stato originario.

Gli scarti ormai sfruttati, per non essere buttati, subivano una preparazione speciale, soffritti con zafferano, pepe, foglie di alloro e scorza di limone, così preparati davano origine alla “frittula” che convogliata dentro il “panaru” di giunco che appositamente preparato con coperte all’interno e “mappine” all’esterno per una migliore visibilità estetica, manteneva caldo il prodotto per tutto il periodo della sua vendita.

Questa produzione, oggi ha cambiato procedimento, gli scarti di cartilagini e composti, non vengono più detratti alle parti dell’animale ma bensì alle sue ossa che saranno utilizzati per il brodo, il trattamento avviene nella identica maniera.

La “frittula” viene abitualmente venduta a “cartate” che corrispondono alle porzioni o immersa nel panino che generalmente è il “semprefresco”, e non viene smerciata a chilogrammi.

Un’altra pietanza palermitana per eccellenza è il “pane cà meusa”, una popolarità che con ostinazione da mille anni continua fino a oggi, un antico abbaglio di un panino con la carne, che utilizza a “saimi” per essere cucinata.

Essa e composta principalmente da una pagnottella ripiena di milza, polmone è “scannaruzzatu” cioè la trachea ridotta a pezzettini, il vastiddaru o meglio ù caciuttaru la prospetta ai propri avventori: “schietta o maritata”, queste due richieste non sempre sono concorde nella loro definizione, alcuni sostengono che la schietta è la vastedda senza la ricotta, maritata con la ricotta, poiché è bianca come l’abito nuziale.

Altri la interpretano diversamente: la schietta e la vastedda solo di ricotta impregnata nella saimi, maritata e quella con la carne (milza) con la ricotta.

Un denso fumo che si eleva da una griglia, un odore piccante e stregante, richiama i frequentatori di uno strano individuo “ù stigghiularu”, li ad armeggiare con una bottiglia che cosparge acqua per attenuare il fuoco, uno spiedino ha qualcosa infilzato a mò di serpente è la “stigghiola”, interiora di vitello intrecciate con cipolla scalogno che li rendono uniti e li profumano.

La loro cottura è un’arte, esse non devono perdere il preziosissimo grasso interno che il fuoco fonde e lo rende cremoso, e non debbono essere bruciate, l’abbrustolimento deve essere dolce e lento.

Alla fine staccata dallo spiedo con maestria verrà tagliata a pezzi è gustata con una manciata di sale e limone in abbondanza, e messa in un piattino di alluminio.

Quella di cucinare alla brace per i palermitani è una grande passione, e la grigliata appartiene ai giorni di festa che casualmente si presentano con il periodo della primavera e con le belle giornate all’aria aperta, la stigghiola è un avvezzo per non perdere questo piacere.

Le stesse interiora di vitello, pulite con acqua e sale, tagliate a pezzi e messi a bollire in pentola, appartengono alla famiglia della ”quarume” o caldume che, servite calde e brodose, danno un piacevole ristoro.

U’ quarumaru si procura le “frattaglie” al mattatoio dove acquistano una prima pulitura con acqua e sale per poi procedere ad una pre-bollitura.

Una volta aveva bottega nei mercati e nei quartieri popolari e nella sua insegna di bottega c’era scritto “Brodo e pietanza”, in questo luogo definiva meglio la preparazione, il bancone era apparecchiato fuori “a putia” e, in un angolo una grossa pentola piena d’acqua conteneva la caldume: ziniero, centopelle, matruzza, corata e quagliaru, tutte parti diverse delle viscere del vitello, aromatizzate con l’aggiunta di carote, sedani, cipolle, pomodori, sale quanto basta e foglie di alloro, questo era il corredo tradizionale per creare il brodo, c’era chi in più gli metteva anche le patate.

Alla domanda da parte degli avventori, il quarumaru, estraeva una piccola parte di ogni pezzo e la tagliava nel tagliere servendola in un piatto, a richiesta gli veniva servito il brodo in una scodella, vecchio e consolante dispensa per i mesi umidi e gelidi.

Il terzo gruppo che suddivide questo escursus gastronomico racchiude i prodotti del mare ed in particolare i molluschi.

Per la strada e nelle zone marinare (Mondello, Sferracavallo e Romagnolo) e facile incontrare in modo particolare i “purpari” cioè il venditore di polpo bollito.

Il loro bancone, sempre lindo, quasi maniacale è il loro gesto, accompagnato da una spugna che lo travolge inconsapevolmente, è apparecchiato con grandi piatti di ceramica, da una ampia pentola piena d’acqua di mare resa incontaminata (una volta era di creta e molto panciuta) tira fuori un discreto polpo (majulino) bollito, i suoi tentacoli tagliati a pezzetti verranno serviti sul bianco ceramico piatto con succo di limone.

A richiesta gli avventori degustano la “testa”, tagliata a metà e privata da una ghiandola che la renderebbe amara per il suo contenuto, si gusta il suo bagaglio recondito.

I venditori di frutti di mare nei loro deschetti offrono ricci, ostriche, cozze (mitili) e “muccuni”, consumati a crudo con l’aggiunta a piacere di succo di limone, secondo consuetudini popolari, chi preferisce assaporarli scottati si rivolgerà a cozze e muccuni che portati bolliti si potranno gustare con limone e a volte con una spolverata di pepe.

Il venditore, fornito con un grosso guanto, per non pungersi dalla presenza degli aculei del riccio, lo taglierà in due parti e lo presenterà su un piatto che crudo sarà gustato accompagnato da un scampolo di pane (mafalda), l’avventore ne estrarrà la parte più succulenta, quella rossastra, venduti a piattini, il loro contenuto è di una dozzina.

Siamo alla fine del nostro modesto viaggio gastronomico e possiamo constatare che questo particolare tipo di cibo, derivato dai dominatori arabi, ebraici e spagnoli, vecchio di secoli, non conosce crisi: avendo superato anche le rigide limitazioni delle norme igieniche, ha saputo contrastare l’avvento di moderne strutture dove si può consumare un pasto veloce (fast-food) e, le mode salutiste ed a resistito a tutto oggi alla cultura del presente, fiore all’occhiello del buon gusto ma anche dell’arte di arrangiarsi.


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