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Ti racconto una storia...



Tanto tempo fa, ma davvero tanto, non c’era mamma tv con i programmi di oggi, c’era un solo canale, l’offerta non era come quella di oggi.

Non tutti avevano la tv e la scelta era di riunirsi con i vicini o i parenti. Il gossip non si faceva sui giornali ma "a porta a porta" e per i più intraprendenti bastava origliare... dietro le porte.

A quei tempi io ero una bimba piccola con i capelli biondi, con le treccine o le codine legate da bei nastri colorati. Mia madre era impegnatissima con noi figli, ma vi era un momento magico, dove tutto si fermava e iniziava il racconto di fatti vissuti da lei tra i sette e gli undici anni durante la seconda guerra mondiale. Alcuni anni, per esattezza tre, molto duri, trascorsi a Genova, dove mio nonno era stato trasferito dai Cantieri Navali di Palermo per lavorare lì. I fatti erano sempre gli stessi ma arricchiti dalle risposte alle mie domande sempre più curiose su fatti e persone che man mano si presentavano nel racconto. Vedevo mia madre come una mamma super coraggiosa e mi chiedevo sempre cosa avrei fatto io al suo posto. Mi faceva tremare dalla paura il racconto della corsa ai rifugi non appena suonava la sirena e m’immaginavo la loro fuga e il nascondersi come topi nei ricoveri. Spesso si trovavano divisi nei rifugi poiché al momento del bombardamento erano in posti diversi. Durante la permanenza in questi sotterranei, convivevano con la paura, perché fino a quando non uscivano, non sapevano cosa era successo in città e la sorte degli altri familiari. Le bombe a volte cadevano nelle vicinanze o addirittura sui ricoveri.

La protagonista dei racconti era la fame, tutto ruotava intorno ad essa.

Ci raccontava delle file interminabili da fare per prendere, con le tessere date alle famiglie dallo stato, il necessario per sopravvivere, del mercato nero, dove potevi comprare di tutto se avevi soldi o oro da vendere, dei lavoretti che mia madre faceva in alcune famiglie per racimolare qualcosa. La cosa che le faceva male era quando parlava dei cartelli esposti nelle case: non si affittano ai meridionali. Si rammaricava che pur essendo italiani e nella stessa tragica situazione, la guerra, non si era solidali e caritatevoli. Il tempo passa ma i pregiudizi restano!

Quando suonava la sirena...!

Mia madre è nata a Palermo, nella borgata dell’Acquasanta vicino il Cantiere Navale, dove mio nonno lavorava. Con l’avvento della guerra il Cantiere divenne un obiettivo militare, a causa dei bombardamenti fu ritenuto, dalla sua famiglia, un posto non idoneo, dove continuare a vivere. Si trasferì così nella borgata di Altarello di Baida, esattamente in via Pitrè, la strada che collegava la via Cappuccini all’aeroporto militare di Boccadifalco. Qui si stabilì e vive ancora oggi. Questa era una zona molto verde, ricca d’acqua, con molti alberi di arance, limoni, mandarini e nespole. Poche le famiglie radicate sul territorio, poche le abitazioni. Vi erano delle ville, dei fondi e dei bagli. Anche se piccola, questa comunità, accolse senza esitare i molti sfollati che provenivano da varie zone di Palermo e che lì si erano trasferiti a causa della guerra. L’aeroporto era presidiato dai tedeschi e proprio sopra vi era una galleria che i residenti usavano come rifugio antiaereo. Quando suonava l’allarme, cominciava la corsa e come lepri iniziavano a correre verso la collina, verso la salvezza, da incoscienti, perché gli americani sorvolavano la zona con i loro aerei e andavano a bombardare l’aeroporto, poiché obiettivo militare. Un altro punto di raccolta, durante i bombardamenti era in via Cappuccini. Ancora fino a poco tempo fa era possibile vedere una freccia blu con scritto “ RICOVERO m 15” sui muri di alcuni palazzi antichi. Segnalava il percorso più breve per raggiungere tutti i tipi di rifugio, con relativa distanza in metri ancora da percorrere. Un giorno, durante un’incursione aerea, mia madre con i suoi, si avviava verso la galleria, lungo la strada vi era una casa abbandonata, qualcuno si fermava lì e mio nonno si era deciso di fare altrettanto. Vi era molta gente rifugiata, mia madre, forse in preda al panico, pregò mio nonno di non restare lì e di proseguire la corsa. Mio nonno la accontentò. Rimasero molte ore nascosti nel ricovero perché quel giorno, la sirena, che avvertiva che l’incursione era finita, si fece attendere. Scampato il pericolo, si avviarono verso casa. Passarono di nuovo vicino la casa, rimasero pietrificati, si erano salvati per miracolo, di quella casa abbandonata non erano rimaste che macerie!

Partenza per Genova...

La guerra faceva il suo corso e mio nonno per lavoro fu trasferito dal Cantiere Navale di Palermo a quello di Genova. Tutta la famiglia composta di tre persone, madre, padre, e due figlie, mia zia di diciotto anni e mia madre di nove si prepararono a lasciare la loro casa, i parenti, la Sicilia, in un momento terribile, dove tutto era precario, dove dovevi andare a cercare un posto dove dormire e mettere al sicuro la famiglia. Il viaggio fu allucinante, stipati, senza intimità con la paura dei bombardamenti e le continue soste alle stazioni di passaggio. Non c’erano i treni veloci a lunga percorrenza e il viaggio durò diversi giorni. Arrivarono distrutti, ma la cosa più importante era: essere ancora tutti vivi. Trovare casa fu molto difficile perché non affittavano le case ai siciliani, ma un tetto si doveva avere per dormire e dopo tante traversie riuscirono nell’intento. Le ore di lavoro a quei tempi non erano le trentotto ore di adesso, si lavorava dalla mattina presto fino al tardo pomeriggio, senza contare che se c’era bisogno di consegnare il lavoro facevano tanto straordinario e si lavorava anche la domenica. Rimasero con mio nonno poco tempo mia nonna e mia zia, mentre mia madre per tre anni continuò a vivere a Genova con suo padre. La mattina si alzava alle cinque e a quella tenera età preparava la colazione a mio nonno e si occupava della casa. Con la tessera andava a fare interminabili file per prendere quello che gli spettava, ciò che lo stato aveva deciso di dare per sfamare la gente. Mia zia, aveva paura dei bombardamenti, era terrorizzata, i tedeschi erano molto presenti nel territorio e la lotta partigiana era molto forte in quella zona. Mia madre invece era molto intraprendente e andava sempre in giro a cercare qualcosa da mangiare o a fare qualche lavoretto a casa di qualcuno per racimolare qualche soldo. Molti sono gli episodi raccontati da lei di storia vissuta, racconti tristi che ancora oggi mi fanno tanto male.

Un brutto incontro...

Un giorno, durante un allarme, mia madre era da sola, la sirena avvisò che stava per cominciare un bombardamento e in fretta e furia si diresse verso il ricovero più vicino. I partigiani cominciavano a essere più pressanti contro i tedeschi e loro di contro facevano rappresaglie contro i civili inermi e per ogni tedesco ucciso prendevano dieci italiani e li fucilavano. Man mano che si avvicinava, notò subito che non c’era la solita gente all’ingresso, ciò era molto strano ma, s’inoltrò comunque nella galleria in cerca di un posto, dove sedersi e attendere la fine dell’incursione aerea. I rifugi erano illuminati, ma come quando si entra in una galleria con la macchina, gli occhi hanno bisogno di un po’ di tempo per abituarsi a quella luce, mentre attraversava i lunghi corridoi, da lontano scorse sui sedili due militari. Erano seduti sui sedili di pietra con gli elmetti e i fucili stretti nelle mani. Era molto strano, di solito era tutto pieno di gente e spesso non c’erano posti a sedere per tutti sui sedili e la confusione regnava sovrana. Avvicinatasi, capì dalla divisa che erano due soldati tedeschi, giovanissimi, sembravano dormire. Allungò il passo e andò oltre, ma appena oltrepassato il sedile, i due militari si mossero, scivolarono piano piano e caddero a terra distendendosi lasciando una scia di sangue. Erano stati uccisi! Presa dalla paura cominciò a correre per i corridoi fino a quando uscì sconvolta all’aperto. Tornò a casa terrorizzata ma per raccontare cosa era successo, dovette aspettare la sera quando mio nonno si ritirò dal lavoro. Dopo questa brutta esperienza, era più attenta e cercava di avviarsi in compagnia in un rifugio. Ogni volta che racconta questo episodio, si rammarica, che con quell’atto, i partigiani, avevano messo a repentaglio, la vita di molti civili. Quel giorno i tedeschi caricarono sul camion i primi dieci italiani, tutti uomini, che trovarono per strada. Non tornarono più a casa dai loro cari !

La piccola vedetta lombarda...

Mia madre, aveva come vicina di casa, una signora genovese che, nonostante la guerra, non aveva problemi finanziari, infatti, la pasta non mancava a tavola tutti i giorni. Venutolo a sapere, un giorno propose alla signora di aiutarla a pulire la casa in cambio di un piatto di pasta. La signora accettò di buon grado e mia madre aspettava quel giorno con ansia con l’acquolina in bocca. La signora aveva un ragazzo che si recava al lavoro tutti i giorni e per l’ora di pranzo tornava a casa per mangiare un piatto di pasta. La signora, aveva l’abitudine di aprire la finestra e con un binocolo scrutava i dintorni fino a quando scorgeva il figlio che sbucava da una stradina. Appena lo individuava, andava a mettere giù la pasta nella pentola, nell’acqua che bolliva. Accorciava così i tempi di attesa e suo figlio trovava già a tavola la pasta. Arrivò il giorno tanto atteso per mia madre, la vicina la invitò ad andare a casa sua per essere aiutata nelle faccende domestiche. Aveva l’acquolina in bocca! Quel giorno mia madre non risentiva della fatica e aiutava volentieri la signora e la accontentava volentieri consapevole della buona ricompensa. Era arrivata la fatidica ora! La signora mise sul fuoco la pentola e cominciò il rito dell’attesa. Lo vide arrivare e di corsa buttò la pasta. Passarono pochi minuti e i vicini cominciarono a bussare con furia dietro la porta, la signora aprì, ma non vide suo figlio! I tedeschi avevano notato che qualcuno con il binocolo scrutava la zona, pensando fossero dei partigiani, prelevarono il ragazzo e lo fucilarono. Una tragedia immensa. Quel giorno il pranzo fu saltato, la pasta rimase nella pentola, mia madre digiuna!

Anche mia madre a casa ha un binocolo e poiché abita nei piani alti, ha l’abitudine di usarlo. Quando vado a trovarla, spesso è con il binocolo in mano sul balcone di casa ed io le dico: stai attenta con questo binocolo, che ti finisce come a Genova, mi ricordi la piccola vedetta lombarda, così, almeno, le strappo un sorriso.

Che meraviglia quel vestitino!...

Quando mia madre si era trasferita a Genova, non avevano portato molte cose, anche la biancheria era contata, non è come oggi che i vestiti sono alla portata di tutti e si trovano già confezionati. Crebbe da subito la necessità di avere un vestito nuovo da mettere anche la domenica per andare a Messa. Il problema principale erano i soldi, si doveva comprare la stoffa e provvedere poi, a far cucire da una sarta i vestiti. Impresa non facile, i soldi non bastavano! Si comprò prima la stoffa ma inaspettatamente una vicina si offerse di cucire gratis i vestiti. Ci volle un po’ di tempo, dopo prove e riprove i vestiti presero forma e finalmente furono pronti per essere indossati. Una bella domenica si recò in chiesa, mia madre era felicissima di sfoggiare il suo vestitino, alla fine della funzione si avviarono a casa lentamente. Si tolsero i vestiti che, provvisoriamente, adagiarono sul letto, e, indossati abiti più comodi per la casa, si diressero in cucina per preparare il pranzo. La sirena, inaspettatamente cominciò a suonare, pertanto, precipitosamente, lasciarono l’appartamento per raggiungere il rifugio più vicino. Il bombardamento si prolungò più del solito, il tremare delle pareti avvisava chiaramente che le bombe cadevano vicine. Finalmente l’allarme cessò e si rimisero per strada per tornare a casa. Da lontano videro che una parte del palazzo era crollata. Via via che si avvicinavano, notavano sul loro balcone, sui fili da stendere, qualcosa che pendeva. Arrivarono a casa, entrando trovarono tutto spalancato, vetri rotti e in camera non trovarono più i loro vestiti sul letto. Lo spostamento d’aria li aveva scaraventati sui fili da stendere ed erano lì attorcigliati, a brandelli! Avevano perso i sospirati vestiti ma avevano avuto salva la vita.

Cosa non si fa per un salamino.

A Genova, vicino la casa di mia madre, vi era un edificio piantonato dai tedeschi, dove in un magazzino vi era stipato ogni ben di Dio. Il passa parola diceva che vi tenevano il mangiare per i militari e che per lo più era stato requisito ai civili. La cosa non andava giù ma non si poteva far niente contro i militari per paura di una rappresaglia. Un giorno arrivò la notizia che i tedeschi stavano abbandonando la città, in effetti, si erano visti movimenti strani e passaggi di camion con molti militari a bordo, ma non verificarono la veridicità della notizia. Mia madre uscì con sua sorella per il solito rito del ritiro del cibo che toccava con la tessera, e arrivata vicino l’edificio, vide della gente sostare nei pressi. Bastò un cenno e non vedendo nessun militare i residenti assalirono il magazzino e cercarono di prendere tutto quello che potevano. Mia madre trascinando sua sorella, entrò e cominciò a prendere formaggi, salamini, e cercava di farsi spazio tra gli altri. La gioia durò un attimo, cominciarono a sentire avvicinare i camion che arrivati davanti al magazzino scaricarono i militari armati di mitraglietta. I tedeschi cominciarono a mitragliare i civili mentre correvano da tutte le parti, mia madre mentre scappava tirava sua sorella e sentendo gli spari pensò che l’unica salvezza fosse di buttarsi a terra, e fingersi morta. Si buttarono a terra e si misero accanto ai corpi inermi dei civili. I tedeschi si allontanarono e solo allora, dopo un po’ di esitazione, tirando sua sorella, pietrificata, si rialzarono e corsero via verso casa. Anche stavolta era stata fortunata e a casa non portò alcun salamino!



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