Con l’avvento della festa dell’Immacolata e del Santo Natale, per alcuni giorni le famiglie, riunitesi nelle proprie abitazioni, danno inizio alle novene casalinghe, e il cibo che fa da cornice è preparato dalle donne più pratiche in virtù della loro specializzazione.
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Anticamente la novena comprendeva nove serate, dal 29 novembre al 7 dicembre, e altrettante dal 16 al 24 dicembre, che davano luogo a raduni fra parenti e amici.
Ogni donna, per questi momenti, allestiva il “buccellato”, sorta di ciambella di pasta frolla ripiena di frutta secca e cioccolata, oppure lo “sfincione”, o ancora i “carduna” e i “broccoletti a pastetta“, i carciofi ripieni, e tante altre ghiottonerie natalizie.
Le “nottate” si trascorrevano, oltre che mangiando, giocando in vari modi, e tutti, bambini, adulti e nonni, attorniavano il tavolo per prendere posto per giocare a carte: sett’e mezzu, minichieddu, mircanti ‘n fera, munzidduzza, trentunu e assu pigghia tuttu e, per i più azzardati, il “piattino”.
Nel “piattino” il montepremi veniva riposto in un piatto e alimentato con il giro di carte. Con la carta bassa si paga, con la carta alta si vince quanto puntato, mentre l’uscita della “matta”, il dieci di denari, comporta la vincita e il possesso dell’intero contenuto del piatto.
Non mancavano gli incessanti giri di “tummula“: ognuno armato di cartelle e vari mezzi (semi di zucca, lenticchie e fagioli, scorze d’arancia appositamente tagliate per questa occasione ) atti a puntare i numeri nelle caselle.
Quasi un rito, tutto affidato alla sorte, e mai alla particolare abilità dei giocatori, ma a una mano che, infilandosi in un sacchetto, tira fuori un bussolotto indicante un numero, con il quale si va a riempire una cartella.
Smorfiando i vari ambi (due numeri in fila), terni, quaterne e cinquine arriva poi come per pazzia “a’ tummula”, il riempimento della cartella prescelta con tutti i numeri estratti che compongono le quattro cinquine.
La tombola, gioco introdotto in Italia nel 1741 dai genovesi, diffusosi largamente nel regno delle due Sicilie ed in particolare nel napoletano, antesignano del gioco del lotto, nella sua traduzione attuale ha mantenuto le usuali direttive per lo svolgimento del gioco: estrazione successiva dei bussolotti numerati mostranti i numeri da uno a novanta che, oltre a essere riassunti su di un tabellone amministrato dall’occasionale giocatore-estrattore, compaiono in cartelle suddivise agli altri giocatori, i quali concorrono alla vincita del montepremi precedentemente suddiviso secondo le varie “cumminazioni”.
La combinazione integrale del complesso di numeri presenti in un raggruppamento di ogni cartella, corrisponde al tombolone, cioè “a’ tummula”, con la riscossione del montepremi più alto.
Le cartelle, fino agli inizi del XIX secolo, erano vendute in fogli volanti ed erano di modesta fattura e venivano stampati nelle tipografie degli “stampasanti“.
Chi estraeva i bussolotti numerici (a’ ghianda), non indicava mai direttamente i numeri ma li “smorfiava”, si serviva cioè di espressioni figurate prestabilite, in parte regolamentate e in parte adattate al momento, che i più comprendevano senza alcun tipo di problema.
In riferimento al numero 25 si diceva: “Natale“; spavento o “scantato” stava per 90; morto che parla: 47; le gambe delle signorine: 77; il cappello: 28; “cu’ l’avi su punta”: 23; “i corna ru’ nsalataru”: 11; “come u’ metti metti”: 69; “i palli… ru’ picciriddu“: 88… e via di questo passo !
Erano sopratutto gli accostamenti improvvisati che procuravano il sale alle serate: con allusioni ambigue e maliziose, con aperte provocazioni rivolte ai soggetti permalosi o a quelli più attaccati al soldo, con impietosi dileggi di coloro che non afferravano il senso e sopratutto il doppio senso del numero estratto e via dicendo.
Era forse questo l’aspetto che maggiormente trasfigurava questi incontri in una dimensione tradizionalmente popolare.
E ancora oggi per “passare la serata” tra risate e battute… continua la tradizione in famiglia!
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