Venendo da Trapani, poco prima di arrivare a Marsala, fra le basse isole dello Stagnone appena affioranti, se c’è bassa marea si possono attraversare a piedi, sul pelo dell’acqua, le poche centinaia di metri che separano Mozia dalla terraferma; in caso contrario, un barcone vi porterà sull’altra sponda in pochi minuti. Circondata dall’Isola Grande, dall’Isola Santa Maria e dall’Isolotto La Scuola, dirimpetto le bianche saline di Marsala, Mozia è un piccolo miracolo naturale e archeologico: spezzoni di mura, di scale, di fortificazioni hanno sull’immediato sfondo il mare e le alture delle altre isole; sulla riva, il silenzio interrotto dal lento ritmo delle onde contro le pietre; il cothon, rarissimo esempio di porto artificiale punico – l’unico della Sicilia -, scorre insinuandosi tra blocchi di pietra regolari, ai cui margini si intervallano macchie verdi miste alla terra sabbiosa. Un paesaggio ricco e forte, né aspro né dolce, che racchiude i resti di una città punica mai più ricostruita dopo la sua fine del 397 a. C.
Chiamata in tempi moderni San Pantaleo (da una comunità di monaci basiliani che vi ebbe sede nel Medioevo), l’antica Mozia fu fondata dai Fenici di Tiro attorno alla fine dell’VIII secolo e guadagnò ricchezza commerciale, accogliendo gradatamente anche genti di stirpe greca e battendo moneta. L’etimo potrebbe voler dire “filanda”, e in realtà pare che andasse famosa per la produzione di tessuti tinti con la porpora dei molluschi, che vi si trovavano in abbondanza. Nel VI secolo, l’espansione dell’impero cartaginese e le rivalità con le colonie greche portarono Mozia a istituire un sistema difensivo che divenne via via sempre più solido. Ma tutto questo non bastò per resistere all’assalto dell’esercito di Dionigi di Siracusa, che nel 397 assediò l’isola usando una nuova arma, la catapulta, capace di proiettare “missili” a lunga gittata. Sconfitta la flotta punica, nonostante la strenua difesa degli abitanti, Mozia venne rasa al suolo. Poco tempo dopo, i Fenici ripresero l’isola ma non ricostruirono mai più la città, trasferendo i sopravvissuti nella vicina Lilibeo. Oggi proprietà della Fondazione Whitaker, in quei 45 ettari non c’è angolo che non sussurri le sue fastose e tristi vicende. Il santuario in località Cappiddazzu, con i resti di un complesso di culto recintato; il sinistro tophet, l’area sacra dove i Fenici deponevano i loro sacrifici in onore di Baal e di Astarte: essa contiene sette strati di urne cinerarie con i resti delle vittime (nella foto); ne vediamo oggi una parte, disseminate a tappeto, conficcate a metà nel terreno, con un misto di pietà e di orrore verso una ritualità per la quale la morte sembrava godere di maggiore rispetto della vita. E poi, la Casa dei Mosaici; le vestigia di un atelier di vasai, con pozzi e forni per la lavorazione della ceramica; una necropoli arcaica, dove i corpi venivano cremati. E infine, il prezioso Museo intitolato a Giuseppe Whitaker, che conserva, tra l’altro, la più consistente raccolta di manufatti fenicio-punici della Sicilia: troviamo un superbo gruppo in pietra con due leoni che azzannano un toro; una celebre maschera ghignante, la prima del genere rinvenuta in Sicilia, di significato apotropaico; la statuetta fittile con una figurina nuda, ornata di collane e cintura, che porta le mani ai seni, probabilmente una dea della fertilità; vasi in pasta vitrea policroma, di tipo greco e punico, stele funerarie, iscrizioni votive, corredi funerari, amuleti, scarabei e bruciaprofumi. L’occhio che scorre di fronte a questi piccoli capolavori di manualità e di gusto, persino quelli che avevano soltanto un uso quotidiano, si arresta di fronte all’eleganza del celebre Giovane di Mozia,(nella foto) rinvenuto nel 79 nei pressi dell’area industriale. E’ una statua di marmo a grandezza naturale, dall’espressione enigmatica ma decisa, e dal corpo atteggiato a spiccata sensualità; mancano le braccia, ma una mano è rimasta appoggiata al fianco e l’altro braccio era alzato a tenere, forse, un oggetto; la tunica, attillatissima, è di fitte pieghe, rese con morbida delicatezza. Auriga, sacerdote o magistrato, l’acconciatura dei capelli e la fascia sul petto ce ne sottolineano la nobiltà. La sua raffinatezza, quasi altezzosa, ci da l’idea della società di appartenenza. Opera di un maestro di V secolo, è simbolo raro – come sostiene Vincenzo Tusa – dell’incontro tra la civiltà greca e quella fenicio-punica.
Un faro della civiltà fenicia
Gli scavi nell’isola di Mozia hanno portato alla luce vari monumenti che sono di grande interesse per la conoscenza della civiltà fenicia e punica nel Mediterraneo. La città, fondata dai Fenici nell’VIII secolo a. C., era situata in una laguna ed era difesa da una cinta di mura e da una serie di torri e bastioni, che si ergevano intorno all’isola sulla riva del mare. Il baluardo più imponente era la Porta Nord, un complesso sistema difensivo costituito da due torrioni avanzati e all’interno da una triplice serie di porte a due luci. La Porta era collegata alla terraferma mediante una strada artificiale costruita su un argine, che attraversava la laguna e consentiva il traffico dei carri fino al vicino promontorio di Birgi. Un’altra porta urbica, detta Porta Sud, era affiancata da un canale fiancheggiato da banchine che conduceva al cothon. Questo era un bacino di carenaggio artificiale, di forma rettangolare (50 per 37 metri), ove i navigli in avaria venivano riparati. Simili impianti portuali sono stati scoperti a Cartagine e in Nord Africa.
Lungo le mura, sul lato nord dell’isola, si sono rinvenuti altri monumenti e rovine. Il ritrovamento più antico è la necropoli arcaica (VIII-VII secolo a. C), ove sono venute alla luce centinaia di sepolture a cremazione, con ricchi corredi composti di vasellame punico e protocorinzio, armi, gioielli, scarabei, ecc. Il primitivo nucleo urbano ove si istallarono i coloni fenici in questo periodo era situato su un’altura ove sorge l’attuale Museo. Nel VI secolo, quando la città si ampliò e vennero costruite le mura di cinta, la vecchia necropoli fu abbandonata e una nuova venne impiantata a Birgi, ove erano praticate sia la cremazione che l’inumazione. Vicino alla necropoli arcaica era il tophet, un luogo di culto di origine semitica dedicato al dio Baal Hammon dove si svolgevano sacrifici umani. All’interno di questo recinto, oltre a un tempietto per il culto, c’era un campo di urne contenenti i resti di bambini appena nati o di animali insieme a centinaia di cippi e stele, talora decorati con scene, divinità e simboli del mondo punico. La via di Porta Nord portava a una piazza, o agorà, dove si ergeva un maestoso santuario a pianta tripartita detto Cappiddazzu, che nella sua forma originaria doveva avere una cornice a gola egizia. Nelle vicinanze c’erano due zone industriali, con botteghe e officine per la produzione della ceramica e della porpora. Una via anulare all’interno delle mura doveva separare i quartieri industriali situati alla periferia dal vero e proprio abitato, secondo un modello urbanistico di matrice orientale. Ma dell’impianto urbano e delle case di Mozia oggi poco sappiamo. Il tessuto viario doveva essere di forma ortogonale con blocchi di case distribuite lungo le arterie principali. Resta, infine, da ricordare la Casa dei Mosaici, il migliore esempio di abitazione finora scoperto, che secondo alcuni risale a un periodo posteriore alla storica distruzione del 397 a. C. La casa aveva una corte centrale con un portico ornato da capitelli dorici e da singolari mosaici a ciottoli bianchi e neri. La decorazione musiva presenta scene di lotta primordiale, in cui leoni e grifoni assalgono altri animali indifesi, secondo uno schema tanto caro all’arte del mondo semitico dell’antico Oriente.
Gioacchino Falsone
Testi tratti dalla brochure della Provincia di Trapani