Nella vita del nostro popolo i Santi hanno un posto particolare, per i palermitani, la santa eremita Rosalia chiamata confidenzialmente “a’ Santuzza” ha un posto straordinario nella pratica religiosa.
La sua devozione nasce nel lontano 1624 quando le spoglie mortali furono trasferite a Palermo e, la peste che in quel tempo infestava la città, cessò definitamente, e a tal proposito divenne la patrona fondamentale del comune.
I palermitani devoti non mancarono di riverirla apponendo ai propri figli il nome della Santa patrona, un’usanza che lega il popolo fedele come un ex voto per grazia ricevuta.
Nei vecchi rioni popolari è facile trovare l’immagine della Vergine Rosalia in una piccola edicola ricavata nel muro perimetrale dell’abitazione, posta a guardia delle mura casalinghe o dipinta dallo stile casereccio di un pittore locale sulle fiancate di un carretto, in tempi moderni, nello sportello di una “lapa o lambrettino” e, perfino i finimenti per bardare il cavallo o la decorazione di bancarelle per la vendita di frutta secca.
All’interno delle case o di un esercizio commerciale patronale è sempre presente un altarino con tanta d’immagine devozionale della “Santuzza”, illuminata dalla fioca luce di una lampada, e nei momenti di sconforto, di dolore o di trepidazione, si accende un cero o si recita una prece con fiducia verso quell’immagine che possa intercedere con l’Altissimo.
Tutta la comunità palermitana, a testimonianza di questa devozione verso la protettrice della città, volle erigere la cappella in grembo alla grotta del monte pellegrino nell’ambito del Santuario che vide la luce della sua vita e conservò gelosamente i resti mortali, ancora oggi meta di frequenti e raccolti pellegrinaggi.
Davanti al simulacro della Santa costantemente ardono una moltitudine di ceri, accesi dalla viva fede e dalla riconoscenza dei suoi figli, stazionano ex voto: braccia e gambe di cera, preziosi argenti riproducenti parti del corpo umano, abiti nuziali o bouquet degli sposini che chiedono protezione per la futura famiglia, piccoli quadri con foto o tavolette dipinte riproducenti il miracolo e piccoli messaggi trascritti sulla carta ad invocare con ardente fede il nome di Santa Rosalia, quale potente forza capace di allontanare i mali più gravi.
Il culto per questa santa leggendaria è fatto risalire al medioevo, sono poche le notizie storiche inerenti alla sua esistenza terrena, narrano le antiche tradizioni che Rosa o Rosalia, l’insolito nel suo nome in cui si tessono la rosa e il giglio e, la rosa assicura la memoria devota era senza spine.
Rosalia nasce all’inizio del XII secolo ed era figlia del duca Sinibaldi, dalla discendenza di Carlo Magno alla dodicesima generazione nacque Sinibaldo, che fu padre della Santa, signore di vasti feudi nei monti della Quisquina e delle Rose.
Avendo fatto voto di castità, fuggi da casa per evitare un matrimonio indesiderato, ritiratasi a pregare e a meditare e fare penitenza in una grotta del feudo paterno della Quisquina, dove secondo la saga vi trascorse dodici anni.
Dopo un peregrinare in altri luoghi tra cui è riconosciuto la presenza del suo passaggio, in un antro limitrofo al territorio di Capaci, successivamente sul Monte Pellegrino, qui visse secondo alcuni agiografi sino al 1166, assistita materialmente e spiritualmente da alcuni monaci benedettini, gli stessi che badarono a darle degna sepoltura in fondo alla grotta in cui era vissuta, morì lassù, ignorata da tutti e, solo nel 1624 la sua memoria ricomparve, l’occasione la diede la pestilenza, miracolosamente furono scoperte le sue spoglie e portate a Palermo.
Inserita nel Martirologio Romano nel 1630 da papa Urbano VIII, fu inclusa nel calendario gregoriano tramite la compilazione della “legenda”( una descrizione della vita e dei miracoli) alla data del quattro settembre (dies natalis), canonizzata dall’arcivescovo Gualtiero che rivestì tale carica dal 1169 al 1191, con la proclamazione della santità episcopale, uso che fu introdotto dai Normanni il cosiddetto “comune virginum” messale gallo-siculo.
Della “legenda” attribuita a Santa Rosalia, non rimane niente, esistono delle citazioni in alcuni diplomi del 1196, di poco posteriore alla sua morte, del 1205 e del 1237 in poi che testimonia la presenza di una santa che reca il nome Rosalia, emesso che normalmente i cristiani portano o assegnano, nomi di divini a persone, enti e luoghi.
Una chiesa nella città di Palermo e un altare nella cattedrale le era dedicato dopo la metà del duecento.
Gli Archivi Arcivescovili palermitani nel corso dei secoli hanno subito diverse perdite di materiale archivistico, così pure il materiale iconografico, una tavoletta del XII secolo di provenienza del monastero della Martorana e adesso conservata presso il Museo diocesano di Palermo che mostra la Santa ora in abiti da monaca basiliana, ora da benedettina, un’altra ancora da francescana, e poi da laica, successivamente in infinite altre configurazioni, che si promulgarono dopo l’inizio del suo culto(1624).
Rosalia, invero, santa fu nella considerazione degli uomini e nella gloria degli altari assai prima che gli eventi straordinari che maturarono nel corso del seicento la consacrassero al trionfo di patrona e protettrice di Palermo, il suo culto è andato attraverso tramandate memorie è diventato sempre più significativo, le sue immagini hanno assunto un “corpus” sempre più vasto.
Il dipinto più antico che la rappresenta in abito di monaca basiliana, si orienta alla grande pala cinquecentesca ridipinta con forte risalto manieristico da Giacinto Calandrucci nel 1703, oggi al Museo Diocesano.
Nei secoli XV e XVI la Santa taumaturga viene rappresentata come una donna laica, giovane e bella, sempre coronata di rose e talora di gigli, che simbolicamente rimandano al suo nome.
La storia del suo sacro culto è aggrovigliata, così anche quella legata alle raffigurazioni artistiche, va distinta in due diversi momenti, prima e dopo il 1624.
Molto frequente è l’iconografia di lei in abito da pellegrina, talvolta con in mano il bastone o anche la croce e con addosso, o ai piedi, la ciotola, spesso compare anche una scritta “Ego Rosalia Sinibaldi Quisquinae Amore Domini mei Jeus Christi” a testimonianza del suo amore per Cristo.
Appare accanto alla Santa, rare volte, un cane che si ricollega a quell’episodio che la vide profeta nei confronti di un uomo accompagnato dal fedele amico sul monte Pellegrino.
A celebrare la gloria della “Santuzza” in tutto il mondo cattolico, fu il pittore Vincenzo La Barbera che per primo dipinse una tavola commissionata dal senato palermitano nel luglio del 1624 che fu portata trionfalmente in processione per attutire la peste, immortalò la romita al centro di una Palermo che era racchiusa all’interno della cerchia murata cinquecentesca con il suo porto e il monte Pellegrino a simboleggiare la sua protezione per questa città.
Il più illustre, Van Dych trovandosi a Palermo per un breve soggiorno, inizio a dipingere una tela per l’oratorio del SS. Rosario, capolavoro che terminò a Genova nell’autunno 1627 e rispedì a Palermo nel 1628, aggiungendo nella rappresentazione l’effige della Santa imponendo la nuova iconografia, che successivamente trasmise in altre tre tele.
Dopo il 1624, una lunga schiera d’artisti ha ritratto per devozione per la Santa, innumerevoli opere d’arte e, in tutte sono presenti i simboli che la caratterizzano: il teschio e la corona di rose.
Opere singolari realizzano i vari Rubens, anche Pietro Novelli dipinse diverse tele ispirandosi ai motivi vandickiani, che tramando ai suoi vari seguaci come: Andrea Careca, Pietro dell’Aquila, Pietro D’Asaro.
Magistrale è la rappresentazione in posizione sdraiata a terra, del periodo barocco, nel momento del trapasso con il braccio che regge il capo, l’angelo che l’accompagna, fedele custode della sua devozione, il teschio simbolo della fragilità umana, il tutto ambientato in una situazione che si svolge all’interno di una grotta.
Iconografia che ispirò il fiorentino Gregorio Tedeschi a realizzare nel 1625 la statua posta nell’ipotetico luogo dove erano sepolte le spoglie della Santa con la figura giacente e in estasi, con il capo sorretto dalla mano, mentre un angelo le porge la corona di rose e di gigli.
Di Carlo D’Aprile è la bella statua, che dal 1661 troneggia sulla facciata del Palazzo Municipale, Gaspare Guercio nel 1656 scolpi la scultura collocata all’interno del sacrato della Cattedrale palermitana, qui l’immagine cambia la statua e in posizione eretta.
Ne poteva mancare il celebre stuccatore Giacomo Serpotta che lavorò in diverse chiese e oratori, non venendo meno a realizzare opere inerenti la Santa.
Un posto particolare occupa la devozione popolare nell’arte povera, la “Santuzza” nella pittura su vetro, che ha avuto una favorevole generazione nel sette-ottocento, con il tempo, il livello artistico si è notevolmente ottimizzato lasciando opere di pregevole valore o, negli ex voto di diversi materiali come la latta o in tavolette di legno dove il sentimento popolare esala il culto per la Santa.
Tra le rappresentazioni cartacee votive, sia stampe sia incisioni, sicuramente Rosalia per i palermitani ha una collocazione ben determinata è tradizionale l’immagine di Santa Rosalia e il cacciatore o la classica dormiente.
I “santini”devozionali che ragguagliano la Santa a “cosa” intima, racchiusa in oggetti personali, utili nel momento dell’occorrenza.
Anche il teatro popolare si interessò alla Santa, durante gli spettacoli non di rado venivano rappresentati degli episodi biblici e la vita dei santi, il medesimo avvenimento si svolgeva nel teatro dei pupi di stile palermitano, la storia di Santa Rosalia per l’occasione veniva messa in scena nel giorno del “Festino” o il quattro settembre, il museo Internazionale delle Marionette conserva un bellissimo pupo che raffigura “Rosalia” proveniente da teatro di Vincenzo Crisafi e risale alla metà dell’ottocento.