Il calendario gregoriano il tredici dicembre festeggia il giorno del martirologio di Santa Lucia, la Vergine siracusana protettrice degli occhi e della vista.

La data di questa giornata anticamente corrispondeva al venticinque dello stesso mese.  lo sfasamento fra l’anno solare, il calendario giuliano e quello tropico fu la causa di questo zibaldone: esso infatti coincideva con il più corto periodo di luce dell’anno.

Un vecchio proverbio contadino dice che “a Santa Lucia è ù jurnù chi ù curtu cà c’è in tuttu l’annu”.

In questa giornata si apre il periodo del lento incremento della luce diurna e annuncia la fine dell’oscurità invernale, esso è l’equivalente del detto: “La cchiù longa nuttata chi ci sia”.

Lo stesso nome Lucia, rappresenta il femminile di Lucius (Lucio) che significa “promessa di luce”, questo nome a dato la possibilità al popolo di invocarla come protettrice della vista e della sanità degli occhi.

Fra le leggende agiografiche scritte per esaltare la Santa, per una falsa analogia del suo nome foneticamente vicino alla parola luce, c’è ne una che narra questa storiella: un giovane del luogo si innamorò degli stupendi occhi di Lucia che, ligia al dettame del Vangelo, dove una frase scritta da San Matteo recitava: se i tuoi occhi suscitano peccato, strappali e buttali via, si strappò gli occhi e li mandò in dono al giovane innamorato.
Ma di notte, andò a trovarla al capezzale del suo letto Gesù che la guarì dalla cecità rimettendole nelle orbite gli occhi, più belli e più dolci di prima.

Ad essa si raccomandano coloro che temono le affezioni della vista, i miracolati di qualsiasi località della Sicilia in cui abitano. In questo giorno anticamente offrivano ex voti di cera, impreziositi con metallo d’argento, che rappresentavano l’organo della vista.

La Santa, patrona di Siracusa che le ha dato i natali e, anche protettrice di Santa Lucia del Mela, è venerata da tempo immemore in diversi paesi delle diocesi della Sicilia ed in particolare di quella palermitana.

Morì nel 304 a Siracusa martirizzata sotto la persecuzione di Diocleziano, la sua tortura durò parecchio tempo, stremata dalle forze, spirò nella sua cella che non riuscì mai a lasciare tranne per essere straziata a morte.

Il suo culto fin dall’antichità si diffuse in quasi tutta la Chiesa cristiana e il suo nome iscritto nel Canone romano, probabilmente da Gregorio Magno, Papa palermitano.

Sovente nelle sue immaginette votive la santa è rappresentata con in mano un piatto, su cui sono posti i suoi occhi, strappatigli dai carcerieri, ma negli atti della sua vita attualmente esistenti non viene mai menzionata una simile tortura.

Ricchi di significato espressivo appaiono anche la palma, simbolo del martirio e la lampada, metafora della luce.

A Palermo, in questo giorno in cui si celebra la Vergine siracusana, si ricorda un vetustu avvenimento, che la Santa implorata dai palermitani esaudì facendo arrivare nel porto un bastimento carico di grano.

I palermitani, stretti nella morsa della fame da diversi mesi di carestia, non molirono il grano per farne farina, ma lo bollirono, per sfamarsi in minor tempo, aggiungendogli soltanto un filo d’olio, creando così la famosa “cuccia”.

Da quella volta i palermitani, specialmente in ambito popolare, ogni anno, per devozione, ricordano solennemente l’evento, rigorosamente ricorrono all’astensione per l’intera giornata dal consumare farinacei, sia pane che pasta: si preferisce mangiare riso, legumi e verdure, questi ultimi due alimenti ci riferisce il Pitrè, anticamente in questo giorno, erano le ragazze palermitane che per venerazione se ne cibavano e non doveva mancare la “cuccia”, questa tradizione era dovuta alla preservazione degli incantevoli occhi della Santa.

A questa devozione i palermitani la riportano ad un vecchio motto: “Santa Lucia, pani vurria, pani nu nn’haiu, accussi mi staju”.

All’occasione quasi tutti i panifici della città rimangono chiusi e, a predominare sul territorio, rimangono aperte le numerose friggitorie, sia quelle stabili che quelle ambulanti, che con i loro particolari trabiccoli raggiungono in ogni angolo gli avventori che per l’occasione diventano tormentosi con frequenti irruzioni dove possono cibarsi di “panelle di ceci” e di “crocchè“: è il loro giorno trionfale, un tempo invece, si facevano soltanto nei giorni che precedevano e seguivano questa festività e, nelle molteplici pasticcerie. Quest’ultime, dai locali monasteri hanno tramandato l’uso di utilizzare l’antica “cuccia” che condita con crema di ricotta e cannella o con scaglie di cioccolata, si è trasformata in uno squisito dolce che viene prodotto solo esclusivamente il tredici dicembre.

Dolce da gustare ovviamente dopo una gran scorpacciata di “arancine” realizzate con il classico ingrediente a base di riso e, principalmente farcite da un concentrato di ragù con carne tritata e pisellini.

Per i sofferenti di stomaco la bella pallottolona di riso, l’arancina, simile ad una grossa arancia, la preferiscono imbottita da una manciata di burro. Il tempo, il gusto e la “moda” del “fast food” ha fatto sì che anche questa pietanza si aggiornasse con nuovi elementi tra cui le verdure, salumi, formaggi e ripieni dei più disparati gusti e colori… financo dolci oltre che salati.

La tradizione vuole che a pranzo del 13 dicembre solitamente i palermitani, non mangiano la pasta ma si rifanno al “riso a minestra” con l’associazione di “sparaccieddi”, che comunemente gli “italici” chiamano broccoletti o “riso alla palermitana” dove il “timballo” cotto al forno è riempito da melanzane che la fanno da padrone, ma non essendo il periodo del prezioso ortaggio, alcuni ricorrono a quelle conservate o quelle che vengono coltivate in serre.

Il riso a volte e anche l’ingrediente principale per preparare il “grattò”, dal francesismo “gateau”, un timballo farcito, ma a Palermo da antica data, lo sformato è costituito da patate bollite e rese a “purea” con l’inserimento di caciocavallo o tuma, associate a insaccati locali. A volte con uno strato di tritato e piselli in mezzo per arricchire il prelibato ma semplice piatto.

Anche le patate hanno un ruolo importante in questa giornata, esse dopo essere preparate a “purea” con l’aggiunta di ingredienti poveri si ottengono le “crocchè”, o “cazzilli” come vengono detti dai palermitani dalla loro inconfondibile forma… ma è la “patata vugghiuta”la semplice patata lessa che solitamente viene offerta già cotta dai fruttivendoli per essere mangiata così com’è o condita all’insalata con cipolla, fagiolini e tanto olio d’oliva appena molito.

La “cuccia”: il must della festa !

Tuttavia per questo giorno tutti aspettano la cuccia, creata e confezionata secondo tradizione, ma di questa tradizione rimane soltanto l’uso di consumarla da parte dei palermitani che per “manciunaria su fatti o tuorniu”: la questione della carestia durante la dominazione spagnola di sicuro non corrisponde a verità storica, comprata nelle pasticcerie o preparata a casa acquistando giorni prima il grano sfuso o confezionato da aziende pasticciere o panifici.

Il nome stesso “cuccia” viene da un trascinamento del sostantivo “cocciu” cioè chicco, o dal verbo “cucciari”, vale a dire mangiare un chicco alla volta.

Difatti la sua preparazione è quasi un rito nelle famiglie siciliane e palermitane in particolare: una antica consuetudine che ci perviene dall’ormai scomparso mondo contadino quando, in periodo di mietitura, i chicchi di grano raccolti venivano lessati e mangiati sul posto nei momenti di pausa.

Una pietanza sicuramente molto antica che i nostri “conquistatori” musulmani ci hanno tramandato. Se facessimo un confronto con alcune città arabe come Tunisi o Il Cairo troveremmo anche qui dove ancora oggi assaggiare una pietanza, il Kech o Kesh, consistente da grano bollito addolcito da latte di pecora o di cammello associato a vaniglia e cannella.

Per preparare la CUCCIA bisogna ammollare il frumento per tre giorni in acqua fredda e cambiando questa continuamente, prima di cucinarlo.

La sera prima della festa, finalmente, si metterà il frumento a cuocere in un tegame, coperto d’acqua con un pizzico appena di sale.

Scolato bene verrà addolcito con crema di ricotta, scaglie di cioccolata e frutta candita a pezzetti e la scorzetta d’arancia o con una mousse di cioccolata oppure con una crema di latte: così preparata viene offerta a chi fa la devozione alla Santa, ai familiari, ad amici e ai vicini di casa.

Anticamente quando era semplicemente lessata, le briciole si lasciavano sui tetti per essere catturati dagli uccellini.

In questo tipo di manicaretto si elogia la qualità di questo cereale: il frumento integrale ed i suoi derivati e fra le antiche cerimonie ancestrale c’è anche quello della nostra “cuccia”.

Palermo le ha dedicato il molo più importante del porto turistico il Molo Santa Lucia

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