Dopo secolare degrado il Castello sta cominciando a rivivere e a suscitare quel fascino che lo ha reso famoso, grazie ai restauri effettuati negli ultimi anni.

“Carinis dominata da una fortezza di recente costruzione”: così Al-ldrisi (1099-1166), scrittore arabo di scienze naturali, mediocre poeta, ma soprattutto geografo, scriveva nel suo libro, rimasto famoso con il nome di “Kitab Rugiar” (II Libro di Ruggero), terminato nel 1154, ossia nell’anno stesso in cui Ruggero II moriva.

L’edificio viene eretto tra la fine dell’XI e l’inizio del XII secolo, su una costruzione precedente sicuramente araba, ad opera del primo feudatario normanno Rodolfo Bonello, guerriero al seguito del conte Ruggero. Dagli scavi condotti nel corso del recente restauro, sia nel lato est che in quello nord, sono affiorate strutture murarie di epoche precedenti a quella normanna. Nel 1283, sotto il regno di Costanza D’Aragona, il Castello passa alla famiglia Abate che lo detiene per circa un secolo. Questa famiglia comincia a trasformare la struttura difensiva in ambienti quasi residenziali.

Nel XIV secolo il feudo di Carini passa alla famiglia dei Chiaramonte.

E’ nel 1397, che a Catania Re Martino il giovane, in cambio dei servigi resi, concede ad Libertino La Grua di Palermo, Maestro Razionale del Regno, per sé e per i suoi eredi successori, la terra di Carini con tutti i suoi diritti e pertinenze.

Nel 1403 Maria La Grua, figlia di Libertino, sposa Gilberto Talamanca. A partire da questa data il Castello subisce trasformazioni radicali.

Due atti di notai attestano che nel Castello furono fatti restauri: uno, nel 1484, ad opera dei maestri Pietro Firreri, Luca Lu Blancu, Pietro Carra, e Filippo Porcellu (per rifinire una sala del Castello, collocare tre finestre con architrave di marmo e per costruire una scala di pietra, ingaggiati dal barone Pietro La Grua; l’altro, nel 1487, ad opera del maestro Masio de Jammanco, da Noto, cittadino di Palermo. Questi si obbligava col magnifico Guglielmo Talamanca, come tutore di D. Giovanni Vincenzo La Grua, barone di Carini di “dimorare a Carini per eseguire delle fabbriche nel Castello della stessa università ed altrove, per un anno continuo e completo, dal 2 ottobre in poi, per 11 onze, e mangiare e dormire per tutto il tempo”.

Per raggiungere il Castello basta percorrere il Corso Umberto l° e salire i gradini della Badia. Si hanno così, davanti, la porta e le possenti mura medievali dell’ XI e XII secolo che un tempo tracciavano l’antico borgo. Elementi arabo/normanni sono riscontrabili anche nella seconda porta del Castello, dove l’arcata a sesto acuto ne prolunga lo slancio. In alto, a sinistra della porta, si scorge uno scudo, probabilmente della famiglia Abbate, mentre uno stemma dei La Grua Tocco Manriquez, che si trovava sopra la porta, è oggi (dopo il restauro), nei depositi comunali. Entrando, una cadi-toia, impediva l’ingresso ai nemici.

Una grande corte apre la visuale della bellissima facciata interna, un tempo intonacata, oggi a faccia vista per mostrare gli stili delle varie epoche, per renderla omogenea al gusto rinascimentale cui si riferiscono i portali delle finestre e del portone di ingresso del piano superiore; come anche i quattro portali del piano terreno. Il secondo, partendo da sinistra, ha sostituito un’apertura trecentesca a sesto acuto con sguanci. I portali sono sormontati da stemmi raffiguranti la gru, simbolo della famiglia La Grua; altri mostrano tre zolle di terra, probabilmente simbolo dei Chiaramonte. In quello del salone del piano superiore troviamo anche due leoni rampanti, simbolo dei Lanza.

Inoltre tre pentafoglia circondano la gru, come simbolo di fortuna.
Entrando al piano terreno una stanza con volta a crociera contiene un muro a faccia vista (prosegue nella stanza successiva ) che originariamente era un muro esterno. In questo sono visibili delle finestre e una porta d’ingresso a sesto acuto con sguanci della vecchia struttura medievale. Un’altra stanza priva del piano di calpestio mostra le fondamenta di strutture precedenti. Un grande salone è diviso da due arcate a sesto acuto con colonna centrale. Affiorate durante il restauro, erano inglobate dentro un muro divisorio cinquecentesco. Il portale di questo muro è oggi addossato alla parete nord. Tre finestre davano luce al salone; oggi una è murata ed è visibile solo esternamente.

Nel lato est rimane da vedere: in una stanza un lavatoio in pietra di “Billiemi”; una cappella affrescata a trompe l’oeil (XVII-XVIII sec), una statua in marmo della “Madonna di Trapani” attribuita a A. Mancino, scultore del XVI secolo. Dentro la cappella si ammira un bellissimo tabernacolo ligneo del primo decennio del’600, con colonnine corinzie che scandiscono prospettivamente lo spazio. Un matroneo ligneo permetteva la vista del piano superiore. Esternamente alla cappella, una porticina porta al bastione, dove sono visibili i resti di un muro perimetrale. Uno scalone in pietra di Billiemi, opera dell’architetto Matteo Carnalivari, conduce al piano superiore ( XV secolo). Lì troviamo un portale marmoreo con una scritta: Et Nova Sint Omnia che è la continuazione di un’altra scritta che si trova su un altro portale marmoreo nel lato Sud-Ovest, oggi crollato, Recedant Vetera. Dall’ esame stilistico dei portali si evince che si tratta di scritte probabilmente del XV secolo. Si riferiscono, a lavori di ristrutturazione che subì il castello alla fine del’400 per cancellare il suo aspetto medioevale non più confacente all’epoca.

Il salone delle feste del piano nobiliare è un classico esempio di sala quattrocentesca con soffitto ligneo cassettonato, camino impreziosito con lo stemma dei La Grua ed ampie finestre con sedili addossati. Il pavimento è stato rifatto recentemente; mentre il soffitto conserva una parte originale dove è visibile una scritta in latino “In Medio Consistit Virtue” e lo stemma dei La Grua e un leone, simbolo dei Lanza, forse posto successivamente. Da un portale sormontato dallo stemma dei La Grua si accede ad altri ambienti che mostrano i segni di epoche precedenti (feritoie, arcate, ecc).

Interessanti sono le stanze affrescate (XVII e XVIII ).

In una di queste si può ammirare un bellissimo portone settecentesco decorato che caratterizza l’alcova. La stanza antistante ha un falso-camino in marmo rosso, mentre l’affresco della volta a botte raffigura “Penelope ed Ulisse”; alle pareti sono raffigurate vedute archeologiche. Segue una stanza in stile pompeiano. Una piccola scaletta circolare porta alle cucine, mentre un’altra attigua sale ai piani superiori. Dal lato ovest si accede ad una zona destinata alla “Foresteria”. Una stanza, in particolare, merita attenzione perché si caratterizza per le vele e i pennacchi terminanti in pietra di Billiemi di stile gotico- catalano. Per una scaletta si accede alla torre o maschio del castello. La torre continua con un soppalco ligneo dal quale una bifora con lo stemma degli Abbate permette di osservare il lato sud del paese. Qui la volta è a crociera con pennacchi terminanti anch’essi con pietra di Billiemi. Una scala, oggi non più esistente, permetteva l’uscita verso i merli del torrione. Da una porticina caratterizzata da un’arcata a sesto acuto si esce in un piccolo terrazzino, creato recentemente, che permette di osservare il panorama della città. Alzando gli occhi verso la torre, si può notare, nella penultima mensola verso sud, la scultura di una mano. In passato si pensava fosse stata realizzata per ricordare l’uccisione della baronessa Laura Lanza, che sul punto di morte lasciò sul muro la sua impronta insanguinata. Certamente si tratta di una scultura precedente all’accaduto; è probabilmente un simbolo di fortuna legato ad una maestranza araba (la mano di Fatima ) o, come asserisce qualcuno, la “firma” di un artista.

Il nostro viaggio finisce qui, osservando questa mano scolpita e pensando alla vicenda che accadde in questo castello. Manca ancora una tessera del mosaico, l’ala sud-ovest ancora crollata, affinché questa bella struttura faccia rivivere interamente la sua bellezza.

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