C’e la cattedrale, splendida da togliere il fiato. Ma ci sono anche fontane, quartieri pittoreschi, arte antica e contemporanea, tradizioni radicate e vetusti conventi. Viaggio a Monreale, città del re.

La strada che porta a Monreale ha già in sé qualcosa di speciale. Si tratta di un lungo rettilineo, il corso Calatafimi, che parte dal mare – come via Vittorio Emanuele – attraversa la città, supera la Cattedrale di Palermo e sale su fino alle pendici del monte Caputo. Qui, inerpicandosi per una serie di tornanti, la strada conduce all’abitato di Monreale. In questa strada, risalente alla metà del settecento, immersa nel verde, ornata di vasi, si susseguono esedre e splendide fontane in marmo e pietra realizzate dallo scultore palermitano Ignazio Marabitti e la sua scuola. La prima è la Fontana del Pescatore, ricca di putti e delfini. Superata la prima curva si offre alla vista la Fontana del Drago, inserita in uno stupendo scenario, con la sua elegante scalinata. Più avanti la fontana ad emiciclo, di stile classico. Ancora oltre, la fontana di piazza Vittorio Emanuele. Ma la storia di Monreale è molto più antica del XVIII secolo.

Si presume tuttavia che la storia di Monreale sia ancora più antica e non nasca con il Duomo. Infatti tuttora esiste il toponimo locu vecchio riferito a una località sulle balze di Monte Caputo, in cui si pensa vi fosse un insediamento umano più antico. La leggenda invece narra che Guglielmo I, durante una battuta di caccia nei dintorni di Palermo, si riposò all’ombra di un carrubo. Addormentatosi, gli apparve in sogno la Madonna, che gli indicò il luogo dove si nascondeva un tesoro, che lui avrebbe dovuto utilizzare per costruire una chiesa. Più prosaicamente lo storico ritiene che il sito su cui erigere il meraviglioso duomo, non a caso intitolato a Santa Maria Nuova, fu scelto perché attiguo al più antico nucleo abitato del posto, ubicato nei pressi di una sorgente, l’attuale quartiere Pozzillo.

Con la realizzazione del duomo, Guglielmo I mette in atto un grande progetto politico e strategico, gettando il seme della tolleranza e dell’ecumenismo.

Alla costruzione del tempio Guglielmo chiama a lavorare muratori arabi, artisti e mosaicisti bizantini e borgognoni per il chiostro e per tutto il complesso monumentale.

Cento monaci furono inviati dal convento benedettino di Cava dei Tirreni nel nuovo monastero. L’abate Teobaldo, il primo dell’abbazia, divenne così arcivescovo di una nuova arcidiocesi che tanta importanza avrà nelle vicende politiche dell’epoca, arrivando ad essere governata da esponenti delle famiglie di primo piano, come i Medici e i Farnese, i Borgia e i Colonna, gli Orsini e i nobili di Spagna e Francia.

L’arcidiocesi andò via via estendendosi: l’abate Teobaldo divenne signore di tre castelli (Giato, Corleone e Calatosi) e ricevette in concessione vigne, giardini, mulini, tonnare. Le basi erano gettate. Accanto all’importante abbazia sorse una civitas, destinata a diventare crogiolo della civiltà latino-cristiana in una terra fino ad allora abitata dai Saraceni. L’età barocca vide il moltiplicarsi delle chiese contemporaneamente al fiorire delle attività.

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