All’interno del quartiere “Capo”, l’antico Seralcadio dall’arabo sari-al-qadi, rione del Kadì (denominata così è la parte superiore nel suo antico ventre) si estende l’omonimo mercato formato da un quadrivio di vie dove il suo asse principale è costituito dalla via Porta Carini, che prende nome dall’omonima Porta riedificata nel settecento riferendosi all’originale quattrocentesca.

Cuore del mercato è la via Porta Carini e a seguire la via Beati Paoli (nome dell’ innominata e misteriosa setta di incappucciati che tra sei e settecento, proprio in questa via, da un’antica storia si riuniva segretamente in una grotta sita nei paraggi per punire chi perpetrava iniquità e soprusi nei confronti dei deboli e degli indifesi) che incrociandosi con la via Cappuccinelle da un lato e la via Sant’ Agostino dall’altro, con la vendita di “ruttame” e “vistita” hanno mantenuto la stessa caratteristica di mercato popolare di una volta.

Quartiere popolarissimo, si formò in età musulmana, oltre il corso del Papireto (uno di primi fiumi oggi sotterranei da cui fu fondata l’antica città fenicia), ed era abitato dagli Schiavoni, pirati e commercianti di schiavi.

Per definizione il mercato del popolo di Palermo, ha saputo mantenere con il suo intricato labirinto viario l’aspetto proprio di un suk orientale, dove trasuda opulenza e magnificenza, ma nello stesso momento, scadimento e limitatezza, prologo grandioso di proteine e vitamine, carboidrati e calorie mascherate da ogni sorta di genere commestibile.

Uno stretto budello si allarga e si restringe tra le bancarelle che si proiettano dal di fuori in cui esse stesse nascono “i putii”, la gente lo rende impraticabile perché si sofferma ad osservare, pattuire, tastare e comprare.

Nella folla si confondono i venditori nomadi che propongono ai passanti cucina di strada: “sfincione e “sfincionello” cauru e “ scarsu uogliu e chiinu di puvulazzu”.

Ci sono i “riffaturi”, con la lotteria privata, le loro “carrozzelle” (solo il telaio) girano con il trofeo, con un biglietto si può sperare di vincere la spesa per una settimana, una cesta di pesce o una parte di carne o dei soldi o altro genere inerente al consumismo.

I loro clienti non sono mai occasionali, gli stessi detentori e gestori di “putia” partecipano a questa strampalata riffa garantendo allo stesso il suo prosieguo.

I venditori creano quella musica capace di penetrare con assordante cantilena in dialetto palermitano, dentro i padiglioni auricolari dei passanti, (“abbanniare”) invitando ad acquistare la loro merce o cantano canzoni con il pretesto di schermire il proprietario della bancarella dirimpettaia.

Confusi dall’allegro vivere stazionano interessanti emergenze architettoniche che si confondono alla degradata residenza popolare, recentemente restaurata, restituendo quell’urbana atmosfera spagnolesca che a suo tempo fece da contorno.

Emerge dai banchi di vendita la facciata barocca della chiesa dell’Immacolata Concezione, che a guardarla da fuori, nasconde le magnificenze conservate all’interno  vero trionfo del barocco fiorito palermitano, orgoglio delle sue maestranze locali.

All’entrata quello che più colpisce sono le preziose decorazioni a “mischio e tramischio” apparate lungo le pareti dell’unica navata di una cappella di un ex convento di clausura, rimasta miracolosamente integra dopo la distruzione del suo annesso convento, dovuta alla bonifica dell’aria limitrofa in cui successivamente si poté realizzare il massiccio palazzo di giustizia, opera dovuta al regime fascista.

Gli arabeschi marmi policromi intarsiati secondo un’antica tecnica che solo le maestranze bizantine riuscivano a creare quell’effetto pittorico di cui la tradizione a saputo tramandare.

La stessa tecnica d’intarsio la si ritrova nei due altari laterali, dove i paliotti di marmo sembrano dipinti per impreziosire gli stessi con area sublime.

Perfezionano il capolavoro ornamentale gli stucchi, colonne, statue e gli affreschi del tetto che con il pavimento a disegno geometrico realizzato con tasselli di marmo, crea un elegante effetto stereotipo.

Fondamentalmente il mercato è sempre stato luogo particolare per la vendita della carne, anticamente nelle vicinanze esisteva il macello civico detto “bocceria nuova” per la macellazione di becchi e altri animali, diverse sono le “carnezzerie” (termine dialettale conseguente alla dominazione spagnola) e non macellerie come vengono comunemente chiamate, presenti e, le beccherie “chianche” che vendono carne di castrato tagliata tradizionalmente nella “chianca” (dal latino “planta”), un grosso ceppo d’albero, da qui la definizione.

Altro particolare, che stupisce, nel vedere i quarti di carne appesi al di fuori della bottega, usanza sopportata, da quella che fu la presenza ebraica in città, per depurare l’animale del suo sangue, caratteristica è l’esposizione di capretti e agnelli in determinati giorni prefestivi, completamente privi di pelle tranne la coda che mantiene il ciuffo che fanno da quinta come sfondo al negozio.

Interiora e frattaglie, fegati e milze, testicoli e trippa, testine d’agnello e piedi di porco li vende il “carnezziere”, “mussu”, “carcagnuola” e “masciddaru” si possono acquistare nella bancarella “da Rosone” a porta Carini proprio all’imboccatura basilare del mercato, due piloni di pietra d’intaglio, comprate dalle monache del vicino monastero di San Vito nel 1779 per realizzare il loro belvedere, fanno da scenario al pluricolorato palcoscenico merceologico fatto di tende dai multicolori, dove il sole a stento riesce a penetrare e, di grosse lampade accese anche a mezzogiorno e per tutta la mattinata, e qui che la milza diventa “meusa”, fatta ballare nel grasso bollente e stipata nel pane e mangiata per strada, e qui che la melanzana diventa “quaglia” per metamorfosi di parole, volatile vegetale per l’olio che canta nella padella, un’intricata mano entra in un paniere avvolto da canovacci per tirare fuori “a frittula” risultato di una segreta pietanza.

Particolare e ammiccante è vedere il pesce-salato (baccalà) in acqua che sgorga da una specie di rubinetto in una tinozza stagnata con grossi pezzi di pesce ammollati per depurare il sale.

Sanno di sale “arrancitusu” i “buatti” di sarde salate e aperte a portafoglio dalle abili mani del “saliaturi” sopra un tozzo di legno e deliscati, stessa operazione ripete per l’aringa.

A tal proposito in seno alla facciata della chiesa dedicata a San Gregorio Magno, uno degli accessi, quello di sinistra, chiuso a magazzino nel periodo bellico, vi si stivava il baccalà per poi essere rivenduto nel mercato, attualmente il sito occupa una fiorente pescheria tramandata alla nuova generazione da un vecchio esercente che vendeva esclusivamente “baccalà ammollato”, pietanza molto richiesta dai palermitani specialmente nel periodo natalizio.

La seicentesca chiesa che si affaccia sul mercato e sempre stata snobbata dai palermitani ed era definita “a chiesa rù baccalà”, ma le sue origini sono molto antiche, addirittura risalgono ad una preesistenza fondata dallo stesso San Gregorio, utilizzando i lasciti della madre, la palermitana Santa Silvia, la sua statua lignea staziona sull’altare maggiore dell’unica navata della contenuta ed aggraziata chiesa.

Successivamente il complesso monastico e la chiesa vennero strutturati dai normanni per poi passare agli Agostiniani scalzi di cui ancora sono i detentori.

L’omonima confraternita costituita all’interno del monastero venera il simulacro ottocentesco di Maria Santissima del Paradiso che festeggia l’ultima domenica di agosto.

In un’angolo della strada, quasi schivo, un uomo piccolo, accovacciato come se pregasse, vende il pane che trae fortuitamente dalle ceste di giunco, a pile, a montagne, a cascate, e “u pani i Paisi” che certuni avventori preferiscono al pane bianco e “inciminato” venduto nei forni, il panificio “Morello” quello con l’insegna liberty per intenderci a piazza Sant’Anna cuore pulsante del “Capo” dove stanno a vigilare Pietro Nolasco e la Madonna della Mercede, ambedue immobilizzati nelle statue di legno, i confrati scelti tra i bottegai in determinate occasioni diventano portatori di una fede pagana e scaramantica facendoli rivivere nelle tradizionali processioni.

Il banco nasconde il venditore dietro una pila che sembra una piramide egizia, tra olive verdi e nere, a fiore, con sale e senza, moresche e lucenti capperi, insiste affinché il compratore assaggi la sua merce che porrà con cortesia e soddisfazione.

La vita al mercato inizia molto presto, i mercanti giungono così mattutini affinché possano piazzare la merce “a rrubba”, ceste, cassette, cavalletti, ripiani, lastre, banchi sono le prime masserizie ad essere esposte su di esse verrà riposta la mercanzia con ostentate presentazioni:”a cuvuni, a barricata, accritta “ o lasciata depositata all’interno della sua cassetta.

La frutta sistemata e “apparata”, secondo la loro colorazione ed effluvio: giallo, rosso, arancione, verde, viola, ecc.

La verdura disposta a parte: zucchine lunghe all’inpiedi, broccoli (cavolfiore) “stipati” uno sopra l’altro, “sparaceddi” (broccoli), “tenerumi” (i calli della pianta di zucchine) “stinnicchiati e ammugliati”, melanzane a “munzieddu”, “cacuocculi”(carciofi) a fasce.

Caratteristica palermitana è l’esposizione dei prezzi, vengono attaccati ad una asticella di legno con un cartoncino su quale si indicano le cifre, lo zero è sempre accompagnato con una codina piccola quasi invisibile.

Oltre ad indicare i prezzi nei “pizzica”, si usa scrivere il tipo di merce rifilata per catturare la percettibilità dell’avventore: uva italia di Pantelleria, pesce locale, sarde vive, pesce spada di Porticello, ecc.

Nel pomeriggio, da una grossa pentola di rame “quarara” scaturisce del fumo invitante, sono le patate bollite o le “domestiche” che solo a Palermo i nostri fruttivendoli sanno apprestare.

Il variopinto pesce disteso sui banchi di ghiaccio è accostato amorosamente, illuminato da grandi lampade e bagnato in continuazione per esaltarne le qualità organolettiche, ma sono i pesci grandi quelli che contano: tonno e pesce spada, tagliati a tranci alla vista degli avventori che prediligono il pesce gramo che è chiamato a supplire con l’immaginazione i piatti opulenti.

Inoltrandosi nel vivo del mercato tra cortine di modeste edilizie, intervallati da edifici che presentano particolari architettonici come le ringhiere dei balconi, testimonianza di un florido artigianato del ferro battuto che all’interno del mercato avevano le loro officine, rimane qualcosa all’estremo confine della strada dove si esauriscono le bancarelle del mercato, dove passando si scorgono gli angusti varchi d’avviluppate vie e cortili.

Il mercato delegato da sempre a remote attività commerciali e artigiane, nasconde una piccola curiosità folcloristica e rituale.

L’opera dei pupi trova nel signor Andrea Gulino un abile costruttore di marionette, nel quartiere trovava un profondo riscontro nei suoi abitanti con la presenza di antichi teatri ormai scomparsi, la costruzione dei pupi con la caratteristica corazza a fatto sì che questa arte venisse trasmessa nella costruzione di armature che le confraternite utilizzano nelle processioni del Venerdì Santo.

Un rituale dove vede impegnati tutti gli esercenti è la devozione a San Giuseppe che si trasforma nelle tradizionali “Vampe” organizzate fra gli incroci e i cortili affinché esorcizzano la negatività, ma la protezione per una migliore vendita è affidata alla Vergine che viene esposta nelle numerose edicole votive sparse per il mercato e sempre adorna di fiori.

Fa da pannello la vetusta chiesa parrocchiale, unica fino a tempo addietro nel quartiere, il resistente prospetto contenente una scultura in marmo dell’Immacolata del 1624, introduce in un’aula tripartita, la chiesa originale del XIII secolo, di essa si conserva soltanto un affresco in una delle navate laterali di quel periodo, in una cappella sono conservate le statue cinquecentesche dei SS. Cosma e Damiano provenienti dall’omonima chiesa sita alla fine della strada.

Ragguardevoli sono una croce dipinta del XVI secolo che pende dalla volta iniziale dell’abside e i pregevoli arredi lignei dell’archivio parrocchiale è la bella tela settecentesca di Filippo Randazzo che rappresenta il martirio di Sant’ Ippolito a cui è dedicata la chiesa.

Luogo abituale di ritrovo sono le taverne dove oltre a bere si fa da mangiare, spesso associato da una serie di giochi tipici attorno al tavolo, il più popolare è “u Tuoccu”, distribuite fra le vie del mercato, oggi alcune di esse si sono trasformate in dinamiche trattorie, è il caso di citare quella in Piazza Porta Carini: Trattoria “supra i mura” adiacente alle vecchie mura che costeggiavano il quartiere ancora esistenti, che propone cucina locale e frequentato dagli abitanti della zona e dai venditori del mercato in quanto è aperto solo a mezzogiorno.

La fiaschetteria “ Fiasconaro” a sempre venduto vino imbottigliato e bevande alcoliche, marsala e zibibbo invecchiate nelle botti si smerciano alla “domanda”.

La vecchia Focacceria “Butera” si è dovuta adeguare ai tempi, oltre a preparare il tradizionale pane “cà meusa” si approntano panini espressi.

La strada mercato è da considerarsi una delle più antiche esistenti in città, essa dalla contrada “Guilla” tagliava il quartiere con un lungo asse che conduceva all’esterno della città murata, verso settentrione e lo fa ancora oggi lasciando fuori la circolazione veicolare per permettere ai pedoni di assaporare e arruffarsi tra straordinarie fragranze di ogni sorta di alimenti e dalle spezie che qui vengono venduti all’aperto sulle bancarelle: cumino, passolina e pinoli, peperoncino in polvere, finocchio in grani, zafferano in polvere (giallo per alimenti) e aromi vari, anche i sapori non sono cambiati: il pane appena caldo, magari farcito di panelle o “fieddi” (melanzane), crocchè e rascaturi, sfincione o assaggiare i loro biscotti che i panettieri elaborano o degustare i dolci e la rosticceria della longeva gelateria-pasticceria Longo: iris, cartocci, spitini, arancine, ravazzate, torrone, sfoglio, taralli, gelati, tutto “ben di Dìu” che i palermitani “licchi” amano.

E se non bastasse proprio accanto alla dolceria, staziona da sempre quello dello ”scaccio”, calie e simienza, fave “caliate”, noci e castagne, fichi secchi e datteri, il tutto per denti buoni, “u passatiempu ri palermitani”.

“Fillata” vendevano gli attempati salumieri con la loro merce esposta che tagliavano a mano o con una più moderna affettatrice, facevano da contorno i caci: caciovallo, pecorino, cannestrato esposti in tutta la loro forma, oggi poco è cambiato.

Durante la contrattazione e facile ad essere chiamati ad assaggiare la frutta o altro, vi faranno costatare di persona sulla qualità della merce e tutto questo con garbo e gentilezza, accogliendovi con un sorriso che scaturisce dal buonumore che nasce dal rapporto umano che questi luoghi ogni giorno sprigionano.

Il mercato a ritrovato le vetuste concorrenze, extracomunitari si sono integrati e si spartiscono la piazza con i locali vendendo riso basmat e altri prodotti, alcune donne tamil comprano l’uva da un fruttivendolo, il pizzicagnolo fa assaggiare “a murtatella” ad una tunisina.

Ogni giorno questo antico mercato che rappresenta il vecchio legame tra esso e la città, nasce e ritrova linfa attraverso il suo ciclo vitale.

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