Palermo, fin dal 1625, festeggia ogni anno il trionfo della sua patrona, Santa Rosalia, “a Santuzza” !
Un’importante festa popolare nota come il “Festino” poiché esso è considerato “a granni festa”, la grande festa, si svolge per cinque giorni, dal 10 al 15 luglio, e rappresenta il momento più alto dell’espressione popolare delle tradizioni e del folklore palermitano.
Lo spazio urbano, nei secoli passati, si trasformava in una grande ribalta ove si succedevano in una mescolanza gioiosa, cerimonie pubbliche sia religiose sia civili e gare di decorazioni e d’illuminazione tra i vari quartieri.
“A Santuzza miraculusa” è riferita a quell’anno maledetto, il 1624, in cui la morte nera falciava la popolazione di Palermo. Nessun rimedio umano era giovato ad arrestare il morbo, e le quattro Sante cui in quel periodo era ufficialmente affidata la protezione della città (Agata, Cristina, Oliva e Ninfa) non riuscivano a contenere il malefico male, né tanto meno i Santi Sebastiano e Rocco, ritenuti specialisti in guarigioni da peste bubbonica.
La leggenda vuole che di Rosalia non si conoscesse nulla, tranne la sua origine, poiché essa visse in onore di santità, sfuggendo alla vita agiata della corte di Re Ruggero. Figlia di Sinibaldo di Quisquina e morta in data incerta in una grotta del Montepellegrino, successivamente trasformata in santuario, apparve ad un cacciatore, tale Vincenzo Bonello, diversi secoli dopo, gli indicò il luogo in cui giacevano le sue spoglie e gli disse di riferire all’Arcivescovo di Palermo di mettere insieme le sacre reliquie in un sacco e di portarle in processione per le strade della città.
L’Arcivescovo Giannettino Doria, il 15 luglio del 1624, insieme a tutto il clero e con la partecipazione del Senato e di alcuni cittadini eletti, portò le reliquie in processione, e avvenne che, al loro passaggio, il male regredisse. Palermo in breve fu liberata dalla peste e, in segno di riconoscenza per tanto beneficio, il Senato palermitano si votò alla nuova Santa e decretò che in suo onore, ogni anno, i giorni della liberazione fossero ricordati come il trionfo della Santa, nel frattempo divenuta protettrice della città.
L’anno successivo, il 1625, per ricordare il ritrovamento dei resti mortali della vergine eremita, questi furono riposti all’interno di uno scrigno, costruito per l’occasione da alcuni maestri argentieri e vetrai, con l’interno rivestito di velluto di color rosso gentile. Le spoglie, così adornate, furono trasferite dal Palazzo Arcivescovile alla cattedrale, percorrendo alcune strade del centro tra il gran tripudio popolare che, con il passare degli anni, fece sì che la festa diventasse sempre più solenne.
Strumento fondamentale per la rappresentazione del trionfo è il carro, introdotto per la prima volta nel 1686, come ci riferisce il Villabianca,preceduto da quattro piccoli carri detti “macchinette”.
Celebre la “muntagnedda d’oru” che porta l’immagine della Santuzza, dalle candide vesti, dal capo coronato di roselline, dal volto raggiante di bellezza.
Le origini di tale manifestazione popolare sono riferibili all’antico trionfo romano, sorto per conferire la ricompensa più onorevole ad un supremo condottiero che avesse riportato una grande vittoria.
Il riferimento è chiaro: La “Santuzza” si era prodigata tanto per la sua città e, a dimostrazione della gran venerazione, doveva essere considerata una regina ed essere portata in trionfo.
Si progettò quindi una macchina scenica, nella quale l’arte barocca primeggiava, simulando un vascello, canone iconografico con cui si trasmise il morbo oscuro, decorato con pitture raffiguranti gli episodi della vita della Santa, con puttini e figure metaforiche. Esso trasportava musici e cantori ed era trainato da quaranta muli riccamente bardati, sostituiti da buoi negli anni successivi. Dopo il 1822, al centro del carro troneggiava una sorta di torre elegantemente decorata e, sul punto più alto di essa primeggiava l’effige statuaria della Santa; il tutto riccamente colorato in oro.
Diversi architetti del Senato palermitano progettarono e si contesero instancabilmente l’incarico in quel periodo settecentesco: tra tutti, il famoso architetto Paolo Amato, che ideò la versione utilizzata anche negli anni recenti.
Fu proprio lui a conferire al carro la forma di “vascello”. In altre occasioni varie macchine barocche tra cui quella del 1701, ripresa nel 1974 dall’architetto Rodo Santoro, furono costruite in modo da imitare palesemente i grandi vascelli settecenteschi.
La configurazione di una nave barocca è l’idea dell’architetto Rodo Santoro; sulla nave, con la prua molto bassa ed un castello di poppa molto alto, per rendere tutto più visibile man mano che il carro procede tra le ali di fedeli, sono imbarcati i musicisti, e su un piedistallo posto sopra il castello di poppa trionfa la statua della Santuzza, con in mano il vessillo del comune di colore rosso e giallo.
Quattro grandi ruote muovono il galeone che percorre l’antico Cassaro (Corso Vittorio Emanuele) trainato da una quadriglia di buoi. Il telaio portante è costituito da strutture metalliche, realizzate dalle Officine Meccaniche Regionali di Partanna Mondello, ed è in scatolato di ferro assemblato in parti facilmente smontabili per permettere di essere riutilizzato per ulteriori festini.
Delle quattro ruote, anch’esse in ferro, due sono più grandi per permettere più stabilità dinamica durante la marcia. La struttura metallica è rivestita di fasciami in legno facilmente smontabili. Le parti a rilievo, i piastrini di balaustra, i corrimano modanati, le volute, i festoni, sono in parte realizzati in legno lavorato al tornio e in parte in materiale derivato da resine sintetiche. I “prigioni” ed i pannelli curvi con i trofei e le statue in resina sintetica sono attaccati al carro con legamenti di ferro. All’assemblaggio hanno partecipato tutti gli scenotecnici del teatro Massimo di Palermo, completando l’opera con la tinteggiatura con colori acrilici che imitano l’oro presso il laboratorio di Brancaccio.
Il carro, durante gli avvicendamenti storici subì diversi cambiamenti: nel periodo in cui regnò la dinastia borbonica, ad esempio, il veicolo rappresentava l’opulenza della corte conservatrice, che intendeva così riscattarsi dalle varie sommosse politiche che si erano verificate durante il suo regno.
La festa di Santa Rosalia, organizzata dal Senato palermitano per volontà dei governi borbonici, mantenne il carro a forma di vascello settecentesco illuminato da ceri fino al 1860, anno in cui la forma cambiò per far posto ad una sorta di vasca ornata da puttini e figure allegoriche che ascendono fino al punto più alto con l’immagine di Rosalia.
Trentotto anni passarono dal lontano 1858, quando per motivi urbanistici si dovette appianare il Cassero e la tradizione interrotta, ma il motivo principale fu che il nuovo governo sabaudo voleva che si dimenticassero i propositi del vecchio governo borbonico.
Il 1896 vide di nuovo il carro per le strade di Palermo. Intorno ad una proposta dello studioso Giuseppe Pitrè fu ricostruito, sul modello dell’anno 1857, una macchina smisurata per quel periodo: larga quattordici, lunga ventidue e alta trenta metri. E infatti, data la sua mole, non fu in grado di discendere il Cassaro e si limitò a percorrere le vie Libertà e Ruggero Settimo spingendosi sino alla Piazza Verdi, dove sostò.
Nuovamente sospesa la festa per due lustri, fu necessario aspettare il 1924. L’occasione la diede il terzo centenario del ritrovamento delle sacre spoglie. La proposta fu di allestire un carro a forma di conca con al centro un pinnacolo alto alcuni metri, che permettesse d’essere accessibile e tenuto in posizione stabile. L’incarico fu affidato all’ingegnere Scibilia, il quale realizzò un carro alto venticinque metri, lungo venti e largo dieci. Centinaia di lampadine elettriche di differente colorazione lo rendevano luminoso e fulgente e all’interno di esso celebrò la messa trionfale il Cardinale Luardi, con la partecipazione ammaliata di una moltitudine di popolo.
Successivamente, per altri trentaquattro anni, il tradizionale barroccio cadde nel dimenticatoio. Bisogna aspettare il 1958, anno in cui la “Marina”, nella cosiddetta “villa a mare” accolse una costruzione immobile che faceva riferimento ai consueti carri, ma sia a quello del 1924 che a quest’ultimo mancava il tradizionale fascino del movimento.
Veniamo in questo modo al 1974, anno in cui il comune di Palermo fa le cose in grande: il ritorno al classico, la gigantesca macchina d’imitazione settecentesca rielaborata dall’architetto Santoro ha una lunghezza di nove metri e larga sei e ha un’altezza di circa dieci metri; per ben due volte il carro discende il Cassero, per sostare nel terrapieno del Foro Italico.
Il festino, ed in particolar modo il carro assieme al corteo storico, che rappresentano l’attrattiva principale, entra in un circuito internazionale; da questo momento i carri che si susseguiranno di anno in anno verranno riproposti in forma più scenografica, pur mantenendo la tradizione documentata per cui furono ideati. Quest’anno si ritorna all’antica rivedremo la storica macchina settecentesca riproposta nel 1974.
La festa continua con la stessa devozione e uguale infervoramento anche nei nostri anni dichiaratamente più moderni.
Si sparano mortaretti sin dal primo mattino con le cosiddette alborate e le campane delle tante chiese del centro suonano a festa, i rintocchi della campana senatoriale del palazzo pretorio proclamano il nuovo giorno festivo.
Davanti alle varie edicole votive, dedicate a Santa Rosalia, disseminate nei numerosi vicoli del centro, si recitano testi e canti della tradizione popolare, un omaggio in onore della Santa: “u triunfu“. Un amalgamino formato da contrabbasso, violino e mandolino accompagna i ponderati versi d’esaltazione.
Anticamente questa particolare attività era praticata da una categoria di cantastorie e musicisti che venivano considerati veri e propri professionisti,. Essi erano per lo più “Orbi“, cioè ciechi, nati o divenuti tali, che sin da fanciulli venivano istruiti a suonare e cantare, per potere poi, da adulti, svolgere un’attività che procurasse loro un sostentamento. Nel 1661 essi si costituirono in congregazione, sotto il titolo dell’Immacolata Concezione. Ebbero un proprio statuto e la loro sede fu ospitata all’interno del convento gesuitico di Casa Professa. Nel loro repertorio poetico-musicale un posto di rilievo aveva il programma folklorico: in esso le memorie legate alla figura di Santa Rosalia, particolarmente quelle riferite alla sua vita terrena, erano molto richieste.
Tutti in strada, l’emozione collettiva investe la folla e la avvolge, la travolge e la pressa, la miriade di luminarie dai multicolori accende i giubilanti, il carro con il suo lento camminare prosegue in direzione della Marina, al grido corale di “Viva Palermo e Santa Rosalia”!
Il fronte del foro italico funge da proscenio, gremìto da tanta gente che canta, balla, mangia e ride e che viene senza accorgersi sospinta in quel luogo per assistere ai tradizionali “botti”, fantasmagorici fuochi d’artificio, che si concludono con la fatidica “masculiata” dopo la quale è facile udire tra la gente un mormorìo: “finieru i picciuli!”, per affermare che con quello spettacolo è finita la festa. I giochi pirotecnici impegnavano ogni anno in un’appassionante gara le ditte concorrenti Napoli e Calamìa. Una sfida all’ultimo colpo, è il caso di dire!
“U’ jocu di focu” i fuochi d’artificio, le magiche girandole, le improvvise fioriture di razzi, capaci di disegnare nel cielo nero della notte il volto di Rosalia, pensoso e afflitto nel vedere questa città travagliata.
Secoli fa il gran simbolo della festa erano proprio i fuochi di gioia, preparati su macchine alte e maestose che erano date alle fiamme; qui il fuoco svolgeva la sua azione purificatrice. Queste macchine infernali, apparati scenografici di grande effetto prospettico simulanti architetture irreali, furono utilizzate a Palermo intorno al 1650 ed erano state progettate da illustri architetti del Senato come Paolo Amato e Nicolò Palma. Due forme classiche barocche, a piramide e a sviluppo orizzontale, vero trionfo dell’effimero che si perderà alla fine dell’ottocento. Il piano del Palazzo Reale era la sede abituale ove venivano date alle fiamme. In un secondo tempo, nel periodo borbonico, queste macchine diaboliche furono trasferite nello spazio antistante la passeggiata a mare, nella cinquecentesca Strada Colonna.
Diversi giorni prima si approntano al foro italico le numerose bancarelle, legate al più grossolano piacere del cibo e dei dolciumi in particolare. Anche in quest’espressione è presente la gioia che i palermitani manifestano per gratificare e onorare la Santuzza.
Si consumano quintali di calia e simienza (ceci abbrustoliti e semi di zucca salati). Vediamo u’ siminzaro, cioè il rivenditore, la sua coloratissima bancarella apparata con le pitture dei carretti siciliani, bandierine tricolori, orifiamma, frange, cartoncini, festoni di carta d’ogni colore e stagnola luccicante, e ovunque, immancabilmente, troneggia l’effige della Santa nelle diverse immagini.
Scompartite e ammucchiate sono esposte: ceci, simienza con le sue varianti, con sale e senza o poco, come la preferiscono i clienti, noccioline americane (arachidi), nocciole tostate, pistacchi, castagne secche (cruzzitieddi), carrube secche, favi atturrati (fave tostate) e i lupini tenuti a bagno nell’acqua salata in un recipiente di rame (quarara).
Immancabile il deschetto dello sfincionaro, che con abilità taglia grosse parti di sfincione (focaccia di pasta molliccia lievitata, con salsa di pomodoro e cipolla a fette, pan grattato, cacio cavallo a pezzettini e acciughe salate) dalla teglia appena riscaldata, aggiungendo olio e origano; lo sfincionello variante di dimensione più piccola è messo in vista a pile e venduto a chi ne fa richiesta.
Distesa calda sopra una lastra di marmo è preparata a vista la cubaita, dolce di zucchero durissimo, che una volta raffreddata si stacca e si taglia a porzioni con un grosso coltello.
I “bubbuluna”, la “inciminata”, la “mandorlata” e la “nocciolata”, sono messi in vendita dai “turrunara”. Il loro pezzo forte è il tradizionale “gelato di campagna”, sorta di torrone tenero, fatto di zucchero, pistacchi e coloranti, che ammicca dai ripiani delle bancarelle con i colori del tricolore italiano. Nonostante il passare degli anni, resiste alla tradizione e si presenta come un classico dell’antica arte pasticciera palermitana.
Il panellaro, oltre a preparare i classici panini con le panelle (con o senza crocché), si è adattato al presente, offrendo gustose pagnottelle con salsiccia di maiale arrostita alla brace, mozzarella e pomodoro e cartocci con wurstel impiastricciati da salse, accompagnati da un buon fresco bicchiere di vino o birra.
Continuo e ritmato è il gesto di colui il quale vende il pane “ca’ meusa”.
Dal recipiente di rame dove cuoce milza e polmone spezzettati in strutto (saimi) con la forchetta distende su una pagnotta appositamente preparata, le parti di milza coprendole di scannaruzzato e fettine di polmone, strizzando poi la pagnottella e accompagnandola con una manciata di formaggio (caciocavallo) o ricotta, la celebre “schetta” o “maritata”.
Altri gesti particolari compie il venditore di fichi d’india: estraendo prima i frutti dalla tinozza piena d’acqua fredda, ove vengono tenuti per neutralizzare le fastidiose spine, si accinge poi al taglio tradizionale: i due laterali del frutto sono tolti tagliandoli completamente; orizzontalmente poi s’incide la superficie e, tirando i due lembi si estrae la succulenta polpa dai diversi colori. Un piattino o due, o una dozzina, secondo la richiesta.
Al tavolo del “purparu” si consumano, abbondantemente innaffiate col limone, cozze bollite e scoppiate, ostriche e ricci, questi ultimi accompagnati dal pane. Sopra il bancone, una fila di piatti luccicanti aspetta di vedere sminuzzato un bel polpo dai grossi tentacoli, bollito all’interno di una gran pentola, una volta di creta.
Per il palermitano doc, non è Festino se gli vengono a mancare i “babbaluci e u’ muluni”.
Il naso all’insù verso il cielo, seduto comodamente su una seggiola, mentre guarda i botti, gusta quasi infastidito i babbaluci (lumache) e non ha importanza se sono conditi con aglio soffritto e spolverate con il prezzemolo o “a’ picchi pacchi” (salsetta di cipolla e pomodoro fresco e aromatizzare da pepe nero), l’importante che non manchino, comprati nella bancarella occasionale allestita per l’evento oppure portati da casa. La porzione tipo è il “piattino”: quanti di questi…. i palermitani possano far fuori nella notte del festino non si sa ma è sicuro che ne saranno consumate a tonnellate.
La postazione di “muluna” (anguria) è riconoscibile dalla “montagna” d’angurie accatastate che, a richiesta del cliente, vengono palpate dalla parte del deretano per verificarne la maturazione. Poi vengono tagliate a grosse fette e di traverso in modo da ottenere parti allungate: Nel mangiarle la caratteristica è di: “manci, vivi e ti lavi a facci”, un unicum per questo tipo dì frutto.
In quest’elenco non possiamo trascurare il gelato, una delle principali glorie dolciarie del palermitano e della Sicilia, presente in una gran varietà di tipi e di sapori. Dal semplice cono gelato, ai gelati imbottiti, ai gelati a pezzo consumati nelle varie gelaterie disseminate al foro italico tra cui l’antica gelateria Ilardo. Fra le essenze più tipiche troviamo il gelato di gelsomino, di scorzonera e cannella, il gelato di fichi d’india e l’ottimo caffè con la panna.
I vari deschetti contribuiscono a dissetare la gente. Aranciate, coca cola, gassose hanno il compito di rinfrescare e accompagnare la digestione ma per il vino e la birra la cosa è diversa: alcuni, ritirati nelle vecchie bettole rievocano un’antica tradizione che è sfida di taverna, gioco riservato ai maschi, nato col vino, prosegue con la birra.
Gioco perverso e cattivo, è il “tocco”, titillamento della voglia e della rabbia, perché se c’è un “patruni” che decide chi debba bere e quanto, c’è anche un “sotto” che ratifica la decisione: insomma, la disgrazia di chi perde è sfaccettata, si può bere troppo o non bere per nulla, e qui sta il bello, che conduce a facce sconsolate o visi troppo allegri.
Conclusasi la parte laica delle celebrazioni in onore della Santuzza, il quinto e ultimo giorno è dedicato alla parte religiosa.
La mattina del 15, l’Arcivescovo di Palermo celebra il Solenne Pontificale alla presenza delle varie Autorità civili e militari, l’autorità Senatoriale cittadina con il suo Sindaco rinnova il patto di fede contratto con la venerabile Santa sin dal lontano 1625, anno del rinvenimento delle sacre ossa.
Fulcro delle celebrazioni, questa volta, è l’urna argentea contenente le sacre reliquie, conservate durante tutto l’anno nella cattedrale accanto all’altare maggiore, allestito dopo la settecentesca trasformazione del Fugà.
Quest’arca monumentale, realizzata nel 1631 dagli argentieri palermitani su disegno dell’architetto del Senato Palermitano, Mariano Smeriglio, venne a sostituire l’originaria, realizzata per l’occasione dei festeggiamenti del primo “festino” del 1625, per dare una sistematica posizione alle 27 reliquie.
Queste, ricoperte di cotone idrofilo e riposte in un cofanetto rivestito di velluto rosso, vennero introdotte all’interno del nuovo reliquiario a sarcofago che nello stesso tempo divenne un apparato atto all’uso processionale.
Ad essa fu conferita una semplice forma rettangolare, suddivisa in tre parti: la base, un corpo centrale e la copertura apicale.
La base, che funge da supporto, viene successivamente adagiata nella “vara” vera e propria ed è costituita da una pedana alquanto compatta nella quale s’innesta un fusto centrale che regge l’intera opera. A livellare il peso, ai quattro spigoli sono posti dei putti alati nudi, in posizione eretta, che utilizzano una mano per sorreggere l’urna mentre con l’altra impugnano uno scudo nel cui campo vi è cesellato il classico simbolo della Santa: la rosa. In entrambi i fianchi laterali sono poste due aquile cinte di corona (emblema della città di Palermo) con le ali spiegate, e con gli artigli sorreggono un gran cartiglio dove sono trascritte alcune dediche dell’allora Arcivescovo Giannettino Doria e del Viceré Filippo IV.
Il corpo centrale dell’arca è il sarcofago in cui è contenuta la custodia con le reliquie. Esternamente, su ognuna delle quattro facce vi è un quadro scenografico in cui sono raffigurate scene della vita di Santa Rosalia; in una in particolare la santa è effigiata in estasi amorosa, mentre offre a Maria una corona di preci, in un’altra mentre abbandona la reggia per ritirarsi nella Quisquina, donde poi un angelo la guida al Pellegrino. Ai lati di questi quadri, seduti in posizione esterna verso la frappa inferiore, sostano due angioletti a reggere la scena.
La balza superiore oggi presenta agli angoli quattro cerofori ,aggiunti in tempi recenti. Sulla parte sovrastante, a piramide, sono presenti quattro scene, inerenti alla vita della Santa, e intercalate da testine di cherubini alati.
La parte apicale termina con una statuetta della Santa in abiti monacali e con sul capo la caratteristica corona di rose, nell’atto di schiacciare un drago.
Opera suprema di un’equipe d’artisti, costò al Senato palermitano 8.321 onze e per la cassa furono adoperati 412 kg. d’argento purissimo.
Anticamente era trasportata a spalle da 62 confrati della Pia Congregazione di Maria SS. Annunziata, della categoria dei fabbricatori (tale privilegio fu acquisito, secondo la tradizione, per via del notevole peso dell’urna e della forza che era necessaria per sollevarla: e a quell’epoca solo i Muratori ne avevano i requisiti). In un secondo tempo la confraternita prenderà il nome “di Santa Rosalia” per via dell’aggregazione di altre confraternite, avvenuta nel 1911.
Al presente la confraternita ha la sede nella chiesa dei Quattro Coronati al Capo. I capitoli stilati all’epoca fanno obbligo ai confrati si condurre in processione la preziosa urna della nostra concittadina Santa Rosalia fin dal lontano 1750. Il sodalizio, votato al culto della Vergine del Pellegrino, continua ancora oggi la sua finalità per cui fu istituito. La presenza dei confrati durante lo svolgimento del festino, è un segno tangibile della loro devozione verso la Patrona.
I confrati e le consorelle vestono un abitino nero bordato di blu, sul cui dorso presenta una placca rappresentante Santa Rosalia, e celebrano la loro festa la prima domenica di settembre portando in processione un simulacro ligneo dell’Eremita intagliato da Giuseppe La Rizza nel XIX secolo.
Alla processione partecipa, per diritto acquisito, la confraternita di Santa Rosalia dei Sacchi costituitasi nel 1635 per volontà del sacerdote Giuseppe Bonfante, dietro approvazione del Cardinale Giannettino Doria Essa era formata dalla categoria dei varberi e scarpari i cui capitoli furono approvati dalla Curia nell’agosto 1636. Prerogativa della confraternita, è di essere votata al culto della Santuzza, fin dal momento in cui furono portate in corteo al Palazzo Reale l’urna di Santa Cristina e il dipinto con Santa Rosalia. Quest’ultimo era, e lo è ancora, posseduto dai Gesuiti di casa Professa, ed era condotto in processione da quattro uomini che indossavano un vestito di sacco e dipinto.
Dall’abbigliamento adottato nacque la denominazione della confraternita; i confrati per un lungo periodo continuarono ad indossare un sacco di tela “naturale” e sulle spalle reggevano un mantello di “lanette” che recava una croce bianca con in mezzo un’effige di Santa Rosalia. Questa veste fu indossata durante celebrazioni particolari. I tempi più recenti anch’essi hanno adottato un abitino nero bordato di blu e, dopo vario peregrinare, hanno stabilito la loro sede nella chiesa di Santa Maria della Pietà alla Kalsa. La seconda domenica di settembre festeggiano la Santa.
Costantemente attiva rimane a Palermo la devozione nei confronti di Santa Rosalia e ancora nel nostro secolo nascono nuove confraternite ad essa dedicate: quella della chiesa di San Giacomo dei Militari al Corso Pietro Pisani, la cui fondazione risale al 1919 e, quella del Marabutti, del 1934.
Entrambe onorano la “Santuzza” la prima domenica di settembre (vogliamo ricordare che, da calendario, Santa Rosalia viene festeggiata il 4 settembre).
Partecipare al corteo, in passato, era quasi un obbligo di tutte le corporazioni. Trattandosi della Patrona della città, esse, oltre ad essere rappresentate fisicamente, conducevano grossi ceri e vari stendardi ed era consuetudine portare con sé i fercoli (le “vare”, appunto) con le statue dei propri Santi. Esse partecipavano secondo un ordine di progressione emanato dal Senato strettamente legato alla processione di Santa Rosalia.
L’avvenimento richiama molto popolino, i devoti aspettano con ansia il passaggio dell’urna, perché ognuno, nell’intimo, ha qualcosa da chiedere alla Santa, e la folla sui balconi è sempre pronta ad omaggiarla con petali di rosa.
Per onorare il transito dell’urna, si dispose, nei tempi passati, di organizzare delle temporanee architetture, drappi, altari e paramenti d’ogni sorta: Queste venivano commissionate da civili che intendevano ornavano i loro palazzi, che si affacciavano sul percorso della processione, con rivestimenti di tessuti pregiati. A ciò contribuivano anche vari altri ordini religiosi e le Nazioni presenti a Palermo.
Ancora una volta la processione prende il via dall’ingresso principale della chiesa Metropolitana e si snoda lungo la più antica arteria della città, ripercorrendo l’itinerario che presumibilmente le reliquie della Santa compirono al loro rientro a Palermo dal Pellegrino, allorché la loro presenza fece miracolosamente cessare l’epidemia di peste.
Oggi come allora la cittadinanza affida al loro miracoloso potere il compito di risolvere ogni sorta di problema, dal malanno fisico alla pena amorosa, fino alla piaga della mafia.