Nella commedia in dialetto siciliano “L’aria del Continente”, il protagonista scopre che la donna che amava era “Carrapipana” (Caropepe-Valguarnera) e non una continentale e quando gustava i fichi d’india sputava i semi che contengono questo gustosissimo frutto molto apprezzato nel palermitano e in tutta la Sicilia.

A parte la metafora, il vegetale spinoso è divenuto nei secoli il simbolo di una Sicilia arcaica e principalmente una consuetudine stagionale per quei palermitani che non sanno rinunciare a certe tradizioni culinarie, goloserie che vengono definite liccumìe.

Nel periodo autunnale e facile incontrare per strada dei deschetti che si organizzano in quasi tutti i rioni di Palermo, attorniati da un gruppetto di persone che attendono accortamente l’abile venditore che con maestria riesce ad aprire in modo inconsueto il frutto è servirlo agli astanti, nottambuli che perdurano le ultime notti estive, pur di assaggiarli.

Estraendo i frutti da una “bagnina” (tinozza) piena d’acqua “agghiacciata”, ove vengono tenuti per neutralizzare le fastidiose spine, si appresta poi al taglio: i due laterali del frutto sono tolti rimuovendoli completamente; orizzontalmente poi incide la superficie e, tirando i due lembi con le dita estrae la succulenta polpa dai diversi colori.

Rossa “sanguigna”, bianca (verde molto pallido) “muscaredda” molto zuccherina e gialla “sulfarina” la più comune e resistente, sono le varietà di fichi d’india che si distinguono per il colore della buccia e della polpa, “agostani” per via della loro maturazione nel mese di agosto riconoscibili per la loro dimensione contenuta, e i tardivi o bastardoni o meglio definiti “scuzzulati”, quest’ultima varietà, più grossi e succulenti, che sopravvengono a maturazione sul finire di settembre.

Gli spagnoli durante la loro dominazione introdussero questa pianta cactacea, intorno al 1560, che a sua volta importarono dal Messico, subito dopo la scoperta dell’America, oggi maggior produttore mondiale tale da essere considerato il frutto nazionale, rappresentandolo al centro della propria bandiera.

Ben presto si diffuse per tutta l’isola divenendo parte integrante del suo paesaggio, i contadini hanno sempre delimitato i loro poderi con delle piante di fico d’india affidandosi alla natura strutturale che ha la proprietà di essere spinosa e quindi invalicabile, trascurandone il loro caratteristico frutto, sicuramente in tempi di carestia qualcuno ne scoprì la bontà, nonostante i fastidiosi semi.

Il singolare frutto, una bacca ovoidale dalla buccia consistente che nasce dalle cladodi “pale” e si presenta pervaso di aculei per cui raccoglierli è veramente un problema “spinoso”, la polpa che può assumere diversi colori è molto compatta ed è riccamente piena di piccoli semi, in compenso contiene molti zuccheri, per molti è attualmente e spontaneamente un prodotto della terra “etnico”.

L’Opuntia ficus-indica, questo il nome scientifico della pianta, spesso è arborescente, i suoi rami sono formati da dischi ovoidali carnosi saldati fra loro e coperti di spine (quest’ultimi rappresentano le foglie), su di essi nascono grandi fiori gialli solitari che sbocciano ad aprile-maggio.

Si può incontrare praticamente ovunque, dagli scavi archeologici alle periferie e nelle città, a zone impervie grazie agli uccelli che mangiandone depositavano i semi che si riproducono.

A Palermo, un tempo diffusissimo nella Conca d’oro, e nella sua provincia si coltiva da antica data e, la varietà migliore e forse la più antica, sono i frutti “calamigna” di Ventimiglia di Sicilia (molto rinomati), da non scordare quelli di Cinisi, Terrasini, Capaci dove addirittura cresceva a due passi dal mare nella battigia e, nelle campagne di Misilmeri e di S.Giuseppe Jato dove il fico d’india ha giocato un ruolo determinante per la sussistenza dei contadini (una volta era definito il “pane dei poveri”) ed animali (ottimo foraggio per questi ultimi), oggi sono oggetto di una coltura intensiva e specializzata.

Ricco di minerali, particolarmente di calcio e fosforo, è significativa la presenza di vitamina C ed non è da sottovalutare le qualità depurative e tonificanti di questo frutto.

Gli Aztechi conoscevano bene le proprietà salutari, sia della pianta che del frutto: diuretico, cicatrizzante, buono contro il diabete, toccasana contro lo scorbuto, in più veniva impiegata come colorante naturale, insieme al suo saprofita, la cocciniglia, un parassita preziosissimo per la produzione del colorante rosso carminio.

Dalle vecchie “magare” siciliane si è tramandato l’uso dei fiori di fico d’india per le qualità benefiche e terapeutiche, in particolare l’infuso dei fiori, raccolti ed essiccati, ha un effetto depurativo, facilita la diuresi e l’infiltrazione renale, unendoli alle foglie di malva il decotto diventa una pozione rinfrescante, tanto da essere bevuta presso gli “erbaioli”, mentre le “pale” spaccate ed infornate venivano usate per curare angine, tonsilliti, febbri intermittenti e malariche, alcuni affermano che utilizzata per il tumore alla milza da ottimi risultati, l’uso più comune e quello di essere usata per cataplasmi nelle contusioni, slogature e lussazioni.

Tagliato a fette e disposto a colare, il succo del frutto con l’aggiunta di zucchero è efficace per la cura della tossi catarrali.

La polpa del frutto bianco (muscaredda) è la migliore in assoluto, ma non è facile ad individuarla in quanto la buccia può essere color porpora o arancione, solo l’accorto venditore sa riconoscere il genere rivendicato.

Da un tralignamento dei frutti, nascono i caratteristici “ficupala”, dentro la “pala” si forma un ingrossamento dove si vede maturare un frutto, anziché crescere al di fuori e attaccati ad essa.

Raccolti ancora immaturi, vengono comunemente appesi al muro di una casa colonica per un periodo di tempo, si aspetta la loro maturazione e possono essere gustati successivamente dopo un lungo periodo, e sono molto gustosi.

La gastronomia non disdegna la possibilità di utilizzare i frutti come conserve principalmente per uso familiare, molti si cimentano a preparare la popolare “mostarda” apparecchiata in umili stampini di creta per poi conservarla per l’inverno, qualcuno addirittura si cimenta a preparare le scorze fritte “ a cotolette”, anche l’industria fa la sua parte è sorprendente il liquore di fichi d’india presentato in una piacevole confezione dove sono inclusi due bicchierini che hanno la forma e colori del frutto, quella dolciaria per i gelati e come colorante naturale ed infine quella tessile per colorare e belletti per quella cosmetica.

Molta attenzione ha avuto nel passato da parte di artisti come pittori e scultori per il suo aspetto scenografico, ma non minore è stata la descrizione che vari scrittori hanno fatto di questa pianta inserita nel paesaggio isolano i pasticceri ne hanno fatto un caposaldo nella eccentrica “frutta di martorana”.

E dire che nell’ottocento questo vegetale fu visto con molto sospetto, il Pitrè ci riferisce che il frutto dei fichi d’india era considerato velenoso, introdotto dai turchi per annientare i popoli cristiani… una leggenda che trova il suo tempo.

Ma già d’allora venivano suddivisi in vari genere di “latini”, sono i frutti nati spontaneamente, i “cula russa” di qualità scadente sono anticipati alla loro consueta maturazione che era tardiva e i “scuzzulati” o “spidiccicuddata” sono i frutti nati da una nuova fioritura in seguito alla rimozione dei minuscoli vegetali della prima fioritura permettendo alla pianta di fiorire una volta ancora, che secondo il Pitrè iniziavano il giorno di San Giovanni (24 giugno), questa varietà ha un’origine particolare e sorprendente.

Si racconta che la “scuzzulatura” nacque per caso “certamente naturale”, da un’attenta osservazione umana”, la fantasia degli uomini ha bramato costantemente giustificazioni e furono contadini o coltivatori di questo frutto residenti nei paesi di Capaci o di Ventimiglia di Sicilia che si sono appropriati la paternità.

La causa principale è sempre una discordia: o tra due coloni che pur di accaparrassi il raccolto si vendicano distruggendolo e di conseguenza alla fine la natura trionfa facendo maturare dei nuovi frutti grossi di consistenza e gustosissimi anche se tardivi o un coltivatore che tenendo alla sua produzione un bel giorno ritrova le sue piante spoglie di ogni frutto, adducendoli ad una vendetta di qualche compaesano invidioso, alla fine scopre che suo figlio a cui teneva tanto, si era vendicato per non aver ricevuto una somma di denaro, ma lo ringraziò scoprendo che le sue colture si rigenerarono più copiosi, permettendo di dare inizio alla nascita di un prodotto locale che nelle bancarelle dei mercati palermitani per esaltare la bontà del frutto si “abbanniava”: “Ficurinnia di calamigna su”.

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