Sul Monte Pellegrino la Grotta della Santa fu mèta per molti anni di pellegrinaggi di devoti, ed il 4 Settembre specialmente folle di popolani si partivano da Palermo per recarsi colà ad onorare la Vergine Romita, che dormiva serena nel suo antro, dove l’aveva baciata la morte. Tuttavia a poco a poco l’entusiasmo scemò, tanto che si arrivò perfino a dimenticare il luogo dove si trovavano i Suoi resti mortali, un tempo sì onorati.
Quante vicende erano passate sull’Isola del Sole, e quante sulla ridente Palermo ! Essa aveva toccato i vertici di una prosperità quasi leggendaria, ma conobbe pure in seguito i tristi giorni della decadenza e dell’abbandono.
Alla dominazione normanna, che aveva fatto di Palermo un centro artistico e commerciale di grandissima importanza, era subentrata la dominazione angioina che aveva iniziato la decadenza, intensificatasi sotto il governo spagnolo, sicché anche in queste vicende politiche va cercata una spiegazione ed una scusa al raffreddamento della devozione dei palermitani verso la loro Santa. Si continuò, è vero, a celebrare ogni anno la festa di S.Rosalia perché era segnata sul calendario, ma lo slancio dei primi anni si era affievolito, negletta e non più frequentata restò la Grotta del Monte Pellegrino.
Dovette passare un lungo volgere di secoli, prima che il culto primitivo reso alla Vergine Palermitana ricomparisse con rinnovato splendore.
Ecco come.
Nell’ospedale di Palermo tra i degenti, nell’autunno del 1623, si trova una certa Gerolama Gatto. Ammalata seriamente ha già ricevuto gli ultimi conforti della Religione; stesa sul suo lettuccio è in preda ad una febbre altissima, che le impedisce di dormire.
È scesa la notte e le lampade ad olio della lunga corsia palpitano nell’oscurità come immobili lucciole diffondendo attorno uno scialbo chiarore. Le ore passano lente per l’ammalata, ogni ora più sofferente, mentre le lampade danno guizzi rossastri dai lucignoli fattisi fumicosi.
La donna, vagando con gli occhi stanchi per la corsia, scorge all’improvviso una figura bianca muoversi lievemente tra i letti ed avvicinarsi alle lucerne per ravvivarle. È una Fanciulla, che le appare bellissima nel candore della sua veste. Le si avvicina, le sfiora con la mano le labbra riarse dalla sete, e dolcemente le sussurra: «Non temere; se fai voto di recarti al Monte Pellegrino, subito guarirai». La visione scompare lasciando all’inferma, che aveva conosciuto esser la bianca fanciulla non altri che S.Rosalia, un indicibile conforto, riaccendendo in lei quella speranza che stava per spegnersi. Il voto è fatto, e Gerolama Gatto, dopo poche ore, lascia guarita l’ospedale.
Però non si dà eccessiva cura di portarsi al Romitorio. Viene in seguito colpita dalla febbre quartana, ma nonostante dovesse vedere nella nuova malattia un richiamo all’adempimento della sua promessa, trascura ancora l’obbligo. Passa così l’inverno, passa la primavera ed arriva la Pentecoste: del 1624, che cadeva quell’anno il 26 Maggio. Con tale solennità arriva anche, finalmente, la decisione della Gatto di recarsi a sciogliere il voto. A tale scopo parte da Palermo in compagnia di due sue amiche, Francesca Anfuso e Giacomina Amato. Compiute le sue devozioni, la Gatto si accosta alla Grotta dove S. Rosalia visse mortificata ed orante e beve l’acqua della fontana che zampilla in quei pressi. L’invade frattanto un piacevole senso di benessere, si sente libera dalla fastidiosa febbre che da lungo la tormentava, un sereno torpore la prende e di lì a poco si addormenta.
Nel sogno vede una maestosa e raggiante figura di Donna con un Bambino in braccio, nella quale ravvisa la Vergine Santissima, da cui ode queste parole: «Ora che hai compiuto il voto avrai la salute». In quell’istante appare anche una Religiosa in bianche vesti che le indica precisamente ove giacciono le Reliquie di S. Rosalia.
Appena risvegliata la donna, in preda ad una gran commozione, si affretta a riferire ai Padri del Convento vicino il suo sogno che, messo in relazione con la riacquistata salute, appare ad essi come un segno della Volontà Divina ed una preziosa traccia da seguire senza indugio. I lavori si cominciarono subito.
La cronaca ci ha tramandato i nomi degli avventurati scavatori: Vito Amato, marito di una delle compagne della Gatto; Giacomo Genovese e Giovanni Tarantino, ai quali si associarono quattro Religiosi del Convento.
Si procedette con cautela e costanza. Gli scavi iniziati il 29 Maggio proseguirono fino il 15 Luglio, senza tuttavia che in questo primo periodo dessero risultati positivi. La terra veniva tratta fuori dalla Grotta ed esaminata con attenzione, ma era impossibile trovarvi traccia di ossa umane. S’incominciò allora a dubitare, e se non fosse stata l’insistenza della Gatto, quasi si sarebbe abbandonata l’impresa, assegnando ad illusione le asserite visioni e indicazioni. Tuttavia ancora si continuò a scavare fino a che, alla profondità di quindici palmi (circa quattro metri), si trovò un masso lungo sei palmi e largo tre che ostruiva il lavoro di sterro. Già si stava per mandare in frantumi il masso incontrato quando apparve, da un’apertura praticatasi, un teschio. Si sospese il lavoro certi di trovarsi dinanzi alle ricercate Reliquie. Mentre il masso veniva estratto e portato alla luce, si spandeva nella Grotta e tutto intorno ad essa un soave profumo. Per i felici scavatori non v’era dubbio che quel masso racchiudesse, come in un scrigno, i resti preziosi della «Santuzza»; ma perché tutti fossero convinti e potessero venire onorati occorreva una dichiarazione autorevole.
Informato il Viceré di Palermo, che era allora il Principe Filiberto, figlio del Duca di Savoia, questi ne parlò all’Arcivescovo Cardinale Giannettino Doria, discendente di una delle più illustri famiglie genovesi. Il piissimo Cardinale che si era adoperato per ravvivare la pietà dei palermitani, onorando i Santi che a Palermo erano vissuti, quali Santa Ninfa, S.Mamiliano, i 24 Martiri Palermitani, i Santi Pontefici Agatone e Sergio, S.Filippo Diacono e S.Oliva, spiegò tutto il suo zelo onde fosse debitamente riconosciuta ed illustrata anche S.Rosalia, che doveva essere tenuta dal popolo di Palermo come un fulgido esempio ed un potente ausilio. Ed è davvero interessante il rilevare la cura posta da questo grande Arcivescovo, nell’accertarsi che i resti mortali trovati sul Monte Pellegrino fossero realmente le venerabili Reliquie della Santa. Fatto un sopralluogo da apposita Commissione, il masso venne trasportato nella Cappella privata del Cardinale Arcivescovo, ed ivi conservato.
Intanto un’altra Commissione stava esaminando i numerosi miracoli, più di trecento, che venivano attribuiti all’intercessione della Santa Romita.
Frattanto il Cardinale diede incarico per la ricognizione delle S.Reliquie a uomini di scienza, anzi a luminari della scienza medica, personaggi molto autorevoli anche per le cariche che ricoprivano. Si trattava infatti del protomedico generale della Sicilia Giuseppe Pizzuto, del protomedico della flotta, Gianfranco Giacchetti, e del protomedico della città, Francesco Guerrieri, nonché di altri tre dottori: Gerolamo Spuces, Erasmo Solati e Lorenzo Di Natale.
Senonché le loro conclusioni furono addirittura sconcertanti poiché, essendo stata eseguita la perizia di notte, per maggior segretezza e con luce insufficiente, si erano raggiunti dei risultati affatto negativi. I dottori sentenziarono che quelle ossa potevano appartenere a più corpi e che i tre crani proposti alla loro osservazione, sia per ragione delle proporzioni anormali, sia per la loro struttura, non potevano dirsi di una donna. Questo era un colpo mortale per le speranze tanto vagheggiate.
Il Cardinale turbato e addolorato consulta il suo Vicario Generale Francesco della Riva che condivide il dispiacere del suo amato Arcivescovo. Che fare? Si decide di udire l’opinione dei Padri della Compagnia di Gesù. Il Vicario Generale si reca dal P. Giordano Cascini, che era allora Maestro dei Novizi, comunicandogli il desolante verdetto dei dottori. P. Cascini non si sconcerta, affermando che avrebbe voluto esaminare, assieme ad alcuni Padri della Compagnia, il sacro deposito sul quale i medici si erano pronunziati sfavorevolmente e, confidando nell’aiuto di Dio, si sarebbe fatta intera luce sui resti mortali oggetto di controversia. Della stessa opinione era anche un altro dotto Teologo pure gesuita, sicché il buon Vicario Generale tornò dal suo Arcivescovo col cuore aperto alla speranza.
Il Cardinale Doria nominò allora un’altra Commissione di cui facevano parte: il P. Girolamo Tagliavia, Proposito della Casa Professa, il P. Giordano Cascini, Rettore e Maestro dei Novizi, il P. Giuseppe d’Agostino, Prefetto degli studi nel Collegio di Palermo e il P. Mario Dominici, direttore della Congregazione dei Mortificati o dei trentatré e di quella degli operai nel Gesù di Palermo. Appena entrati là dove si conservavano le Reliquie, i Padri presero ad esaminare i tre cranii; primo si offerse loro il più grande, che i medici dicevano convenire alla statura di un gigante. Soccorsi dalla luce divina, si avvidero subito esser quello un cranio di proporzioni ordinarie, cinto però di un mirabile strato di pietra lucente venutosi formando col lento lavorio di stillicidi arenosi e depositi calcarei che lo avevano preservato dalle ingiurie del tempo e ne avevano accresciuto il volume tanto da ridurlo ad un capo gigantesco. Lieti della scoperta esaminarono i due altri e non durarono fatica a riconoscere nel secondo la natura testacea e a dichiarare quello non essere altro che un vaso, un orciuolo di terracotta, e ciò si constatò meglio quando ne staccarono un pezzo. Il terzo poi il quale era parso ai periti più regolare, era un semplice ciottolone arrotondato, somigliante a quelli, che s’incontrano nelle spiagge del mare o nel letto dei fiumi o dei torrenti. Scalfito infatti dallo scalpello, a colpi replicati, mostrò la sua natura silicea e fu messo da parte.
Tutto ben considerato e ponderato, i quattro Padri e il Vicario Generale conclusero che quelle ossa erano di un corpo umano, che appartenevano ad un solo corpo e non erano frammenti di altre ossa, che pareva chiaro esser quelle ossa di una donna anziché di un uomo; che finalmente quella conservazione singolare operatasi per via degli stillicidi, poteva essere un segno soprannaturale.
Il giudizio dei Padri, riferito seduta stante al Cardinale Arcivescovo, gli arrecò grande allegrezza. Egli adunò quel giorno stesso i periti, li esortò ad esaminare meglio quei resti mortali, e a dare su di essi la loro sentenza sotto la fede del giuramento.
I medici, alla vista del Sacro Deposito, esaminato ora sotto altra luce, rimasero fuori di sé per lo stupore; appena potevano credere essere quelle le medesime ossa da loro studiate di nottetempo. Ne ammiravano il candore, ne osservavano le proporzioni che sì bene si addicevano alla statura di una donna, ne esaltavano la meravigliosa conservazione e, lodando la perizia fatta dai Padri, si dicevano pronti a sottoscriverla senz’altra discussione.
Ma piacque al Signor Cardinale assodare meglio l’autenticità delle Reliquie e convocò un’altra adunanza alla quale, oltre ai dottori ed ai Padri della Compagnia di Gesù, furono invitati a pronunziarsi cinque Religiosi dei più pii e più dotti dei vari Ordini Regolari. Tutti quanti, dopo maturo esame, unanimemente e per ordine, si sottoscrissero con la formula consacrata negli atti «Habemus evidentiam credibilitatis» (Abbiamo l’evidenza della credibilità) dichiarando: «Le ossa ritenute di S.Rosalia sono ossa umane e nella loro configurazione e dimensioni si può arguire che appartennero ad un corpo femminile. Non sono pietrificate, ma incorrotte e diverse per il loro stato di conservazione e bellezza, da tutte le altre ossa trovate nella Grotta e sul Monte Pellegrino».
Questo avveniva il giorno 11 Febbraio 1625 ed il 23 seguente «convocata la nobiltà e i canonici, il Cardinale, Giannettino Doria, conforme ai sacri canoni e riti approvando quello essere il Corpo della Santa Vergine Rosalia, consegnò quel prezioso tesoro al Senato Palermitano, con atto solenne, e cioè a D. Nicolo Branciforte, principe di Leonforte, conte di Raccuia, Pretore; Mariano Agliata e Spadafora, D. Ludovico Spadafora, Diego Blasco, Tomaso Cascini, D. Francesco Requesens Barone di S. Giacomo, D. Pietro Settimo, Senatori, acciocchè fosse insieme in mano della Città di Palermo e della Chiesa Cattedrale con ogni diligenza custodito». Così ci riferisce il P. Giordano Cascini, uno dei primi biografi della Santa e membro della Commissione per la ricognizione delle Reliquie.
I numerosi miracoli attribuiti all’intercessione di S. Rosalia e le altre circostanze facevano supporre, con una certa sicurezza, che quei gloriosi resti dovevano proprio considerarsi le famose e ricercate Reliquie, ma era nei disegni di Dio un fatto decisivo che avrebbe dissipato tutte le incertezze ed annientato tutti i dubbi.
Già altre volte si era tentato il ricupero delle Reliquie della Santa Romita; ma nulla si era concluso di positivo. Le cronache del 1500 parlano di una pia donna che aveva scelto per luogo del suo eremitaggio il Monte Pellegrino, con l’intenzione di trovare le ossa di S.Rosalia di cui voleva imitare le eroiche virtù; ma, nei venticinque anni che passò lassù, nulla le era stato possibile trovare.
Non più fortunato, nelle ricerche, fu un certo P. Benedetto, Superiore del Convento del Monte Pellegrino. A lui apparve S.Rosalia e lo invitò a desistere dall’impresa, dovendo il ritrovamento delle sue Relique essere collegato con un avvenimento straordinario, che avrebbe portato un gran beneficio alla città di Palermo. E fu proprio così.
Mentre si scavava nella grotta del Monte Pellegrino il misterioso masso che raccoglieva il corpo della Santa e si svolgevano i lavori delle commissioni, si andava addensando su Palermo una tremenda sciagura: la peste.
Da qual parte arrivò? Si incolparono alcune poche robe inquinate, appartenenti a cristiani riscattati dalla schiavitù dei mori ed arrivati a Trapani su di un galeone proveniente dalla Barberia; essi avrebbero così inconsapevolmente portato con la libertà, che era un bene per loro, uno dei più gravi malanni alla loro patria. Per questa o per altra via la peste giunse al bel lido siculo e si diffuse rapidamente seminando stragi. In tempi in cui le misure igieniche erano pressoché ignote, non fa meraviglia che la terribile epidemia prendesse uno sviluppo impressionante in Palermo ed altrove; a diverse riprese anzi contaminò un po’ l’Italia intera, operando sinistramente, quale laboriosa ministra di morte, in tutte le regioni della nostra Penisola. Nel 1630 la peste funestò Milano, e sarà descritta due secoli dopo dall’immortale Manzoni.
In quell’anno, il 1624, Palermo si andava trasformando in un immenso lazzaretto per diventare poi un enorme cimitero; laddove prima pulsava irrompente la vita, dominava ora da padrona la morte. Restava ancora all’isola la limpidezza del cielo e del mare, la miracolosa feracità del suolo; la cornice era tuttora meravigliosa e non cambiava, ma racchiudeva una scena macabra di malattia, di pianto e di lutto. Le pubbliche calamità sono il collaudo della vera grandezza degli uomini. Se c’è un momento in cui si deve assistere al trionfo della carità, questo momento è precisamente quello del massimo bisogno e della sciagura. Sei anni dopo, a Milano, il Card. Federico Borromeo darà prova stupenda della sua carità; ma non meno grandioso spettacolo di bontà soccorrevole aveva dato il grande Arcivescovo di Palermo Giannettino Doria.
Non appena egli ebbe notizia dell’apparire e del serpeggiare del morbo, si prodigò in ogni modo per arginare e mitigarne i micidiali effetti, e portò ai colpiti il suo sollievo materiale e spirituale. Accanto agli appestati, come sempre e come dovunque, montarono la guardia Sacerdoti e Religiosi, pagando un forte contributo di vittime al contagio. L’esempio veniva dal Pastore della Diocesi che non si risparmiava davvero, consigliando, confortando, incoraggiando tutti. Ma occorreva soprattutto propiziare la Divina Giustizia affinché fosse allontanato il tremendo flagello, e si pensò a pubbliche preghiere. Quando si sta male si ricorre alla Mamma, ciò che fece la città di Palermo ricorrendo alla Vergine Immacolata, alla quale si era rivolta già nel 1570 ed era stata liberata dalla peste. Per riconoscenza fu offerta allora al Santuario di Loreto una raffigurazione in argento della città. Si trattava perciò adesso di fare a Lei un nuovo fiducioso ricorso onde scongiurare la grave calamità, e lo si fece.
Era il giorno dell’Assunta di quell’anno 1624 e nella Cattedrale si diedero convegno Autorità e popolo, tutti obbligandosi con giuramento ad osservare il digiuno nella vigilia della festa dell’Immacolata ed a difendere il privilegio del Concepimento Immacolato di Maria fino all’effusione del sangue. A questo si aggiunse un altro voto, quello cioè di proclamare Santa Rosalia Patrona di Palermo, e di tenerne in grande venerazione le Reliquie, qualora di esse fosse stato fatto il decisivo riconoscimento. La festa di S. Rosalia fu celebrata quell’anno con maggiore solennità del solito. Tuttavia non si notò nella salute pubblica alcun miglioramento, e la peste continuò inesorabilmente a mietere vittime. A che pro allora si era pregato e si erano fatte promesse? Era stata dunque inutile l’ardente invocazione di tutto un popolo? Pertanto si andava diffondendo in città come un senso di stanchezza e di scoraggiamento, quando avvenne un fatto strano che determinò il trionfo della Santa del Monte Pellegrino e fornì la prova dell’autenticità delle sue Reliquie.
Certo Vincenzo Bonelli aveva avuto la moglie giovanissima uccisa dalla peste, ma voleva sottrarla al seppellimento frettoloso che veniva eseguito collettivamente per tutti i cadaveri dei colpiti dal morbo. Onde la salma della sua donna fosse posta in terra benedetta, portata via con tutta la solennità possibile e contraddistinta da un segno di riconoscimento, denunciò la morte della moglie dovuta a malore improvviso. Scopertosi l’inganno il povero Bonelli, oltre a non raggiungere lo scopo, ricevette l’ingiunzione di restare chiuso in casa, pena la morte. Il pover’uomo però non resistette a lungo alla reclusione forzata e, anche nell’intento di sottrarsi ai suoi tristi pensieri, trovò il modo di eludere ogni vigilanza fuggendo nottetempo, sotto le spoglie di cacciatore, sul Monte Pellegrino.
Mentre girovagava pei sentieri della montagna alla svolta detta della Scala, vide ad un tratto una fanciulla in abito da eremita che lo guidò alla Grotta di S. Rosalia, assicurandolo che proprio lì aveva vissuto, pregato ed era morta Colei che i palermitani chiamavano “la Santuzza”.
Il finto cacciatore, incantato dalla visione, s’azzardò a chiedere:
— Chi sei tu?
— Sono Rosalia. —
Il poveretto cadde in ginocchio e, fattosi ardito, parlò della peste che non accennava a finire e della fiducia che il popolo aveva posto nella sua protezione, ma che adesso se ne stava dubitoso constatando che, nonostante le suppliche ed i voti, nulla si era ancora ottenuto.
S.Rosalia confortò il Bonelli, predicendo che la peste sarebbe presto cessata; ma che egli ne sarebbe stato una delle ultime vittime; avrebbe però avuto tempo di confessarsi e comunicarsi per mettere a posto l’anima sua. Gli ingiunse poi di andare in città a dire al Cardinale Arcivescovo che non dubitasse più dell’autenticità delle ossa rinvenute sul Monte Pellegrino. La prova di ciò sarebbe stata che quando esse fossero state portate in processione la peste sarebbe cessata. A tutta prima il Bonelli non ebbe difficoltà a promettere, ma quanto a mantenere si trovò in seri impicci, perché andare a fare l’ambasciata equivaleva rimetterci la testa rendendosi, per tal modo, reo confesso di patente infrazione alle disposizioni che lo riguardavano. Perciò, tornato a casa sua, non disse nulla a nessuno. La predizione però non tardò ad avverarsi, poiché la peste lo colpì. Un Sacerdote, certo Pietro Monaco, accorse al suo letto, gli amministrò gli ultimi Sacramenti, e ricevuta la comunicazione del Bonelli morente circa la visione avuta, si affrettò a darne notizia al Cardinale Doria. Questi, senza frapporre indugio, mandò due Padri Cappuccini a far da testimoni auricolari a quanto il Bonelli raccontava. Il moribondo davanti ad essi affermò di nuovo, con giuramento, la verità di quanto aveva asserito, ed il saggio Cardinale vide in ciò un segno della Volontà di Dio per la glorificazione della sua Serva fedele. E come farà il Cardinale Federico a Milano con il Corpo di S. Carlo Borromeo, anche il Cardinale Giannettino Doria onorerà i Resti mortali della Santa Patrona.
In un’urna improvvisata fece pertanto raccogliere le ossa ritrovate nella Grotta e le espose alla venerazione dei fedeli nella Cattedrale, mentre si andava preparando alle Reliquie un degno trionfo. Quello che i palermitani prepararono in quei giorni per la loro Santa ha dell’incredibile: il primo Festino !
Il senso di grandiosità caratteristico del seicento, in questa manifestazione si esprime appieno, tenuto pure conto delle circostanze tutt’altro che favorevoli a festeggiamenti di qualunque genere. Stupisce dunque che mentre il morbo continuava ad infierire (e perciò le preoccupazioni dovevano essere per tutti assai gravi) vi siano stati voglia e modo di provvedere a cose adatte a tempi meno calamitosi.
I mercanti, che in una città di movimento e di commercio non potevano davvero mancare, ed anzi in certo modo la presidiavano con i loro fondachi disposti nelle zone denominate Catalogna, Firenze, Genova e Napoli, provvidero con munificenza alla costruzione di quattro giganteschi archi di trionfo.
Nel bel mezzo di Palermo il Senato ne fece erigere un altro di mole imponente. Sembrava che fosse stato trasportato da qualche solitario colle, dell’isola un tempio classico, con i suoi quarantotto ordini di colonne. Esso venne ornato con trentasei statue di Santi, fra le quali dominava quella di Santa Rosalia.
Strade, finestre, balconi, furono pavesati di drappi e addobbi, in una fantasmagorica varietà di colori.
In capo alle strade principali sorsero trentasei altari, ai quali si lavorò con attività febbrile, ed una volta costruiti furono abbelliti di fiori e corredati di vasi d’argento.
Dalle celle campanarie delle torri cittadine irruppe, nei tre giorni precedenti la grandiosa processione, il rombo solenne dei sacri bronzi.
Alla sera la città si illuminò di coreografiche ghirlande di lumi e di fuochi; per questa illuminazione occorsero 100.000 scudi d’oro, cifra davvero iperbolica per ogni tempo, non solo per quello.
Sembra di vedere la smorfia di qualcuno che avrà brontolato: «Che spesa esagerata!, sarebbe stato più opportuno devolvere tale somma per misure d’igiene e per sollievo degli appestati nei lazzaretti.»
Il nostro modo di concepire l’economia non sempre coincide con la vera saggezza e con i disegni di Dio. Difatti, in questo caso, la risposta alle eventuali disapprovazioni la diede il Signore, che per intercessione di Santa Rosalia fece cessare il tremendo contagio.
Per dimostrare poi che non si dava solo importanza alla esteriorità dei festeggiamenti, si digiunò dal popolo nel giorno precedente al grande trionfo, e la Cattedrale fu continuamente affollata di devoti in preghiera.
Arrivò infine il 7 Giugno dell’anno di grazia 1626 e Palermo visse una delle sue giornate più memorabili.
Un interminabile corteo, partendo dalla Cattedrale si snodava per le vie, composto di ben 98 Società e Congregazioni, nonché da tutta la popolazione cittadina.
L’arca che conteneva il prezioso deposito delle Reliquie, procedeva ondeggiando tra la folla, quasi cullata dal canto di duecento fanciulle biancovestite che la circondavano.
Mani si alzavano supplichevoli, grida, invocazioni, preghiere, acclamazioni accompagnavano il passaggio trionfale della Santa Romita che ritornava per le vie della sua città recando, con la sua protezione, il dono della salvezza.
Nulla, sarebbe sembrato più propizio al propagarsi dell’epidemia, che la riunione di tanta folla in una stagione particolarmente calda; secondo le previsioni umane si sarebbe dovuto pensare ad un maggior infierire del male mentre, quasi improvvisamente, il morbo scomparve.
Il 15 Luglio il Pretore si era recato al Monte Pellegrino per fare un sopralluogo alla Grotta e seppe, al suo ritorno, che in quel giorno nella città non si era verificato nessun caso di peste. Così terminava la tremenda morìa.
La vita allora riprese di colpo i suoi diritti, Palermo si rianimò anche nei commerci, e con rinnovato slancio si strinse riconoscente attorno all’urna benedetta di S. Rosalia.
Passarono cinque mesi e sebbene la peste tentasse ancora qualche timida apparizione, dal giorno dell’indimenticabile trionfo delle Reliquie si parlò della peste come di un lontano lugubre ricordo.