I dolci palermitani hanno un privilegio… quello di essere nati dalle mani premurose e laboriose delle monache di clausura !
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Preparati nei monasteri venivano serviti al pubblico attraverso una apposita ruota incastrata nel muro e pagati in anticipo per mezzo di una paletta spinta fuori dalle grate, lo si ordinavano e, secondo la loro specialità venivano preparati istantaneamente.
Era prerogativa delle suore dei vari monasteri della città di Palermo che oltre alla stretta osservanza delle regole che scandivano la loro giornata per supplire alla insufficienza economica vendevano piccoli peccati di gola che traevano da ricette segrete o inventavano di volta in volta, dolci ricchi e fantasiosi, in una vera esplosione di colori e sapori che ammiccavano con gli occhi la bellezza e il palato dei concittadini.
Preferiti da tutti i ceti palermitani, che approfittavano di una festa in famiglia o festività comandate, perché davano garanzia di genuinità ed erano più a buon mercato.
I genuini ingredienti utilizzati come farina, lo zucchero, le uova, la ricotta, le mandorle, il miele, il pistacchio, le nocciole, la frutta secca, sono tutti prodotti della natura dell’isola quindi sempre disponibili.
Quasi tutti i monasteri avevano la loro specialità che con il tempo si è tramandata nelle operose mani d’alcune persone che ne hanno fatto un mestiere: il pasticciere, continuando così la loro opera sono diventati i classici dolci palermitani famosi per la grande varietà.
E non esiste festa religiosa o ricorrenza familiare che non sia celebrata con un dolce o una pietanza tradizionale, perché le suore oltre a preparare i dolci, alcune erano brave nella fattura di manicaretti frutto delle nostre millenarie dominazioni.
I “cannoli”, generati sicuramente per uno scherzo da prete, vengono fuori da un dimenticato monastero, a Palermo le suore del monastero di Santa Maria di Monte Oliveto, detto della badia Nuova in cui preparavano questo motteggio carnevalesco dove gli ingredienti principali sono la scorza fritta, realizzata con farina, l’aggiunta di cacao e la crema di ricotta.
Per il periodo carnevalesco, le suore oltre ai cannoli confezionavano, se fritti, le “teste di turco” e le “cassatele” piccole paste ripiene di ricotta, questi nel periodo pasquale divenivano i dolci rituali, tanto da fare nascere un modo di dire palermitano “cù nappi, nappi cassateddi i Pasqua” per indicare quando una cosa è finita: chi ha avuto, ha avuto.
Sempre nel periodo pasquale ai bambini si regalavano “i pupi cu l’ova”, che le monache realizzavano in pasta forte a cui inserivano l’uovo sodo e lo spargevano di piccoli confettini colorati.
Il monastero di Santa Elisabetta, ubicato nella parte settentrionale dello spiazzo antistante il Palazzo Reale, oggi poco identificabile per via della sua trasformazione in uffici per la Questura, le suore erano conosciute per la loro rosticceria ed in particolare per le “ravazzate”, un impasto di farina con l’aggiunta di strutto (sugna) soffritto, il cui ripieno era la crema di ricotta; quest’ultima specialità palermitana (ricotta, zucchero e scaglie di cioccolato fondente) è un ingrediente semplice che viene utilizzata nei ripieni di tante altre leccornie come nella cassata, nei cannoli, nelle sfince, nelle cassatedde, nell’iris e nella cuccìa.
Per il Natale, le monache erano dedite alla confezione dei “Nucatoli”, un dolce tipico palermitano nociato cioè condito con noci o il “biscotto di San Martino” tipico per la festa del Santo… a Palermo è tradizione intingerlo nel vino moscato.
Dietro la cattedrale nella piazza Settangeli esisteva fino al 1860 l’omonimo monastero, distrutto dai bombardamenti borbonici, le monache preparavano per il periodo natalizio un impasto con pasta dolce: farina e zucchero, mandorle finemente tritate, aromatizzato con miele, succo d’arancia o cannella, il loro nome e tuttora la mustazzola, farciti con conserva di pistacchio, queste mustazzola li chiamavano “pantofoli”.
Un simile impasto diede la possibilità di creare “l’ossa di mortu” tipici per la ricorrenza dei defunti, vengono preparati con la pasta forte ed una parte bianca ricavata d’albume montato a neve, dove vengono rappresentati parti scheletriche del corpo umano.
Immancabile nelle festività, in special modo, nel periodo pasquale, come lo attesta un documento del 1575 del sinodo di Mazara, tra i dolci più delicati, erano famose le cassate confezionate nel monastero di Valverde.
Un dolce assai curioso erano i “feddi ru cancillieri”, per “fedde” che in dialetto palermitano significa fette, ma anche natiche, abbinato alla specificazione “del cancelliere”, hanno fatto immaginare ad un riferimento alle parti basse di questo funzionario della Magistratura, ma in realtà il cancelliere era un gran benefattore Matteo Ajello gran cancelliere di Guglielmo II che nel XII secolo fondò secondo la tradizione, un monastero che era ubicato dietro palazzo Belmonte-Riso distrutto durante i bombardamenti dell’ultima guerra.
Le suore benedettine preparavano dei dolcetti di pasta di mandorle dalla forma bombata denominati usualmente “fedde del cancelliere” per realizzarli si utilizzavano delle apposite formine bivalve, che foderate dalla pasta reale venivano farcite con crema d’uovo e marmellata di albicocche.
La tradizione vuole che questi dolci derivano da antiche usanze pagane che riproducevano il sesso femminile.
La pasta reale o pasta di mandorle consentì alle monache della badia della “Martorana” di realizzare i famosi frutti di martorana, regalati ai bambini il giorno del due novembre, con questo impasto colorato di verde si realizzano gli involucri della cassata e cassatine, minuscole cassate con la ciliegina al centro; la pasta reale modellata e stesa in una sagoma di gesso si realizzano le pecorelle pasquali.
Ogni cucina di ogni monastero possedeva di solito un corredo minimo ed indispensabile di attrezzi per la confezione della pasticceria in genere, ma era l’utensile specifico che serviva a preparare il dolce di cui erano specialisti ad non mancare e perfezionare.
Un mortaio di rame o di pietra serviva solitamente a pestare le spezie come la cannella per aromatizzare i vari tipi di dolci, o la mandorla, le noci o le nocciole per la confezione dei torroni o i ripieni per altri tipi di dolci.
I calchi di latta, o di zinco o di rame per modellare o le formelle di terracotta o di gesso, stampini in legno con decorazioni, i tagliapasta di latta a forma di fiori, cuori, stelle, cerchietti e motivi decorativi vari.
Un altro utensile molto diffuso era lo “sperone” che serviva per ritagliare la sfoglia di pasta, realizzato in metallo, comunemente era il rame quello più pregiato.
La “siringa” con il pistone di legno serviva per preparare i vari tipi di biscotti semplici o ricci, lo sbattiuova erano di solito di fil di ferro, sostituito da una comune “forchetta”.
Per infornare si utilizzavano i “lanni” delle teglie di latta o zingate con l’orlo rilevato o ondulato di diverse forme: circolare, quadrata o rettangolare.
Molti elementi decorativi dove è la fantasia che subentra sono realizzate con le proprie mani come il semplice “impasto” o piccoli utensili di uso quotidiano: con il coltello si incidevano i vari motivi a “dente di lupo”, a reticolo o diverse geometrie; con il ditale si incidevano particolari decorazioni a puntini o l’estremità di una chiave usata come punzone.
La cucuzzata (zuccata) è un elemento che si ritrova in molti pasticcini palermitani tra cui il natalizio cuore di Gesù, la sua preparazione è molto complessa ed elaborata, si ricava dalla zucca di tipo “lunga” o a “tromba”, ma anche dalla buccia dell’anguria.
Tagliata a strisce sottilissime e lunghe la “cucuzzata”, le suore creavano i famosi “capìddi d’àncilu” (capelli d’angelo) utilizzati per guarnire.
Era una specialità che si preparava con particolare cura nel monastero di Montevergine che le suore rivendevano ad altre comunità religiose per preparare i loro dolci.
D’antica tradizione spagnola erano le ottime “impanatiglia”, un impasto di pasta frolla da cui si ricavavano piccoli dolcetti ripieni di carne, confezionate dalle mani abili delle suore benedettine dell’Origlione.
Assai leggera era la crema del “biancomangiare” abitualmente si dava ai bambini e agli ammalati, le suore del monastero di S. Caterina erano molto rinomate per questo tipo di gelatina di pollo realizzata con latte di mandorla e aromatizzata con cannella, nella versione dolce e salata, dove il tutto doveva essere bianco come la neve.
Le domenicane del S. Caterina inoltre confezionavano una sorta di panino votivo dedicato alla Santa d’antica tradizione, composto da un impasto composto da farina di mandorle, zucchero e albumi d’uova battuti a neve, la pagnottella veniva farcita da conserva di zucca, mandorle e aroma di cannella e vaniglia.
Il “pan di spagna” consumato a fette con il latte, oppure quale sostegno per preparare altri dolci, veniva composto con la comune farina se no con l’amido di farina; con la medesima composizione si preparavano i biscotti “savoiardi” dalla particolare forma ovale, generati per ricordare i nuovi inquilini italici: i piemontesi.
Tutto questo, era confezionato dalle monache domenicane del monastero della Pietà in via Alloro, oggi Galleria Regionale e in via Maqueda il monastero delle stimmate distrutto per costruire il teatro “Massimo”, le suore producevano le sfince “ammaliate e fradici”, le prime molto semplici erano fritte e guarnite di miele, le “fradici” venivano imbottite con uova e panna.
Il riso bollito e raffreddato, insaporito dalla cannella e il miele, diventava un dolce che le suore basiliane della badia del SS.Salvatore vendevano ai loro fautori con l’aggiunta di cioccolata amara fusa diveniva un dolce votivo e tradizionale (riso nero).
Nel monastero della Concezione al “Capo” le monache realizzavano i “moscardini” un impasto di farina con zucchero e l’aggiunta d’abbondante cannella, questi biscotti avevano la forma di un dito grosso ed erano confezionati per il “festino” di Santa Rosalia.
Il frumento ammollato e lessato, ed in seguito addolcito con crema di ricotta e canditi, diviene al femminile la famosa “cuccìa” dal dialetto cocci o “cuocci”, dolce tradizionale per il giorno di Santa Lucia il 13 dicembre, su questo dolce di antica tradizione si legano molte leggende riferite a periodi di carestia.
Questo dolce devozionale veniva realizzato dalle monache del Conservatorio di Santa Lucia in via Ruggero Settimo per onorare la Santa patrona dei non vedenti.
Le “minne di vergini” nome dialettale delle mammelle, dava origine ad un dolce dalla forma a coppetta, propria di un seno giovanile e sottolineato da una ciliegina rossa che fa da capezzolo, è probabile che la preparazione derivi da antichi rituali propiziatori dell’era pagana.
Lo confezionavano le suore del monastero di S. Maria delle Vergini, sito presso la salita Castellana in corso Vittorio Emanuele, che si divertivano a scherzare sul titolo della badia.
Fino a pochi anni fa le suore che avevano un’apertura su piazza Venezia ed erano venduti al pubblico, assieme ai famigerati “cannoli”, oggi dolci simili si trovano nelle pasticcerie con il nome di cassatine.
Un tempo quando la quaresima era di stretto rigore, non era solo la carne ad essere bandita, ma anche il latte, i latticini, il formaggio e le uova, lo strutto ed i grassi animali, in questo quadro d’astinenza, furono ricercati quindi dei dolci privi d’ingredienti vietati, le suore di quasi tutti i monasteri che confezionavano normalmente biscotti pensarono di apparecchiare un biscotto particolare che chiamarono “quaresimale” che con il tempo, le ricette originali si sono inquinate, oggi prodotte con farina, mandorle, zucchero, strutto, buccia di arancia grattugiata e cannella in polvere sono vendute comunemente tutti i giorni.
Come le “iris” preparati con panini di riposto, svuotati dalla mollica, farciti di crema di ricotta ed immersi nel latte per legare la “mollica”, il formaggio dei poveri, e fritti, furono il dolce più venduto dei monasteri, assieme ad altre prelibatezze improvvisate e divenute specialità.
I “taralli” biscotti circolari imbevuti d’anice liquoroso e, rivestito di glassa zuccherata e i “sospiri di monaca” piccoli, fragili e leggere meringhe, un sospirato respiro di una giovane monaca che faceva sborniare.
Al presente, i ventuno monasteri di Palermo che producevano questa ricca varietà di dolci, hanno da tempo lasciato questa usanza, alquanto piacevole, il loro prosieguo è affidato alle numerose pasticcerie che costellano la città.