A Gerusalemme Gesù fu accolto in un tripudio di fronde di palme, secondo un’antica usanza derivata dal benvenuto che il popolo d’Israele tributava ai sovrani. Da quel giorno si tramandò l’usanza di esibirle nella domenica precedente la Pasqua (la domenica delle Palme, appunto).
Esse, benedette durante la messa, assumono un valore magico-religioso e ad esse viene affidato il compito di vegliare sulla serenità del nucleo familiare e di scongiurare i rischi di malattia e calamità.
La palma benedetta viene custodita in un piccolo altare, presente nelle case dei fedeli, ma la si può trovare anche insieme ai pani e ai dolci cerimoniali degli altari votivi allestiti in occasione della festa di San Giuseppe. Presenti anche nelle processioni pasquali, le palme addobbavano, in epoca non recente, animali e veicoli, collocate sulle testiere dei muli, sulle fiancate dei carretti, sugli alberi delle imbarcazioni.
Nessuna altra pianta, oltre la palma, dispone oggi di una festa tutta propria e, come strumento di propiziazione è soggetta ad una serie di prescrizioni e interdizioni.
Un divieto, ancor oggi osservato, non consente di gettare via i rami benedetti degli anni precedenti, che si preferisce invece conservare.
Alla palma sono riconducibili altri segni di matrice cristiana, come i fregi di castità e di purezza, e per questo viene spesso associata alle figure di santi e di martiri nelle immagini devote. La devozione popolare, poi, ne ricava un prodotto originale e raffinato che, attraverso l’arte dell’intreccio eseguito da mani abili, crea un oggetto unico nel suo genere.
A preparare e a vendere le palme sono oggi persone che da sempre si sono industriate a fare i più disparati mestieri, che con il loro motofurgone vendono le palme sul sagrato delle chiese.
Una volta era “u palmaru” cioè il venditore di palme, che un mese prima della giornata celebrativa faceva il giro per le campagne, tagliava i rami delle piante scegliendo i migliori, operando così una naturale sfrondatura delle piante.
Tra le palme, la più adatta all’occasione è la “phoenix dactylifera” ma, in mancanza di questa, si usa la palma delle canarie, dopo aver scelto il tipo “fimmininu”, individuabile per i rami resistentissimi (spatuli) da cui pendono i frutti.
Questa presenta foglie con lacinie più lunghe e sottili, e deve avere una lunghezza di due metri per essere adatta all’intreccio (“curina”). Vengono perciò generalmente scartate quelle che non danno frutti (le cosiddette “masculine”), con lacinie più corte e meno adatte ad essere intrecciate.
Dalla raccolta alla lavorazione, trascorrono pochi giorni, durante i quali le palme sono sistemate in luoghi asciutti e coperti da teli, affinché le foglie, debitamente essiccate, siano pronte per l’intreccio.
Ogni foglia viene aperta a ventaglio per verificarne le lacinie e asportarne gli stami secchi.
Successivamente si staccano quelle estreme, fissate alla base, per lasciare libero l’asse di sostegno necessario all’impugnatura della palma.
Alla base dell’intreccio c’è un preciso studio della forma da seguire per le combinazioni, e le composizioni vengono suddivise in “figure”.
Un regola generale nelle operazioni d’intreccio è di dare rilievo alla simmetria, lavorando “a specchiu”, nel senso che ogni figura composta sul lato sinistro del ramo va riprodotto eguale e alla stessa altezza sul lato destro.
“Carri” o “cunocchi” sono in modo generale chiamati i piani o i campi in cui si suole dividere la superficie lavorata del ramo. La creazione di una palma, il suo pregio o il tempo necessario per poterla intrecciare, dipendono in gran parte dal numero di “carri” in cui risulta strutturata e dalla complessità di elaborazione delle singole figure: (panareddi, vureddu di lupu, trizza a spica, trizza a cannizzu, trizza a pettu d’oca, trizza a crocchiula, trizza a spicchiu di mennula,…).
Le lacinie vengono piegate dalle mani esperte dell’artigiano che, con il solo uso delle dita realizza l’intreccio e l’aspetto voluto. Osservando le palme esposte, risulta sorprendente la varietà di soluzioni compositive realizzate, ed è in rapporto a questa unicità, data dalla misura e dalla complessità del disegno, che successivamente ne viene fissato il prezzo di vendita.
La fase di rifinitura non segue immediatamente quella dell’intreccio; soltanto alla vigilia della domenica vengono di solito guarnite o decorate da nastri colorati. Nel frattempo, per rallentarne il rinsecchimento, vengono conservate dentro recipienti d’acqua che ne bagnano appena i gambi. Il fiocco o il santino con cui si arricchiscono non sono mai forniti come accessori, ma come segni di compiacimento per la funzione cui sono destinate.
A volte si preferisce imbiancarle con un procedimento particolare: si tengono chiuse in una zona buia e affumicate con i vapori liberati dallo zolfo acceso in un contenitore per almeno ventiquattro ore. L’azione scolorante rende le lacinie di un bianco pallido, su cui spiccano meglio, come in una filigrana, le figure intrecciate e le decorazioni.
Il simbolo della croce campeggia sull’estremità delle palme commissionate dalle confraternite: queste vengono lavorate in modi molto particolari e devono essere di una lunghezza determinata, per adeguarsi alle urne del Cristo morto.
Oggi molti degli usi tradizionali connessi alla preparazione delle palme sono in gran parte svaniti o trasformati; gli addetti ai lavori, pressati dall’esigenza di confezionare nel più breve tempo possibile il maggior numero di palme, finiscono col ridurre all’essenziale gli elementi compositivi e decorativi degli esemplari. Di fatto è scomparsa del tutto la figura del “palmaru”, sostituita dai fiorai i quali hanno però mantenuto i segreti della manifattura della palma pasquale, anche se ormai, complice una maggiore coscienza “ambientale” tesa a proteggere le superstiti palme, è più diffusa la vendita di piccoli rami d’ulivo colorati con una soluzione argentata o dorata e sigillati nelle buste di cellophane.
La religione cattolica ha tentato di attribuire un significato cristiano all’usanza dei rami d’ulivo e delle palme pasquali, indicando nelle propaggini delle palme la vittoria che il Redentore ha riportato sul principe della morte e nei rami d’ulivo l’unzione della misericordia.
E’ la domenica precedente la Pasqua: si celebra con la benedizione e la distribuzione delle palme e di ramoscelli d’ulivo, in città come in tutti i paesi della provincia.
Ogni città si trasforma in Gerusalemme e rievoca l’ingresso trionfale di Gesù con processioni e riti rievocativi in parte emozionanti.
A Piana degli Albanesi il rito bizantino vuole che il vescovo, riccamente vestito e a cavallo di un asinello, attraversi il paese per fare il suo ingresso pomposamente; i ragazzi di Montelepre portano in processione palme e rami d’ulivo fino alla chiesa Madre prima di essere benedetti, così come a Blufi, nel versante interno delle Madonie, i fedeli che partecipano al rito della benedizione oltre alle palme usano realizzare panierini, crocette, ventagli, che utilizzano nelle case a scopo propiziatorio.
Carattere più rituale ha la processione a Gangi: l’immutata ripetibilità d’antiche gesta in cui gli elementi religiosi si legano a quelli collegati con l’attività agricola. La palma e il dattero, simboli di fecondità, sono portati in processione per essere benedetti e conservati per tutto l’anno affinché proteggano le loro case da influssi malefici. Protagoniste della suggestiva celebrazione religiosa sono le undici confraternite locali, che indossano gli antichi originali abiti per prendere parte ad un rituale più contemplativo del palermitano e delle Madonie tutte.
Qualche giorno prima i confrati della confraternita prescelta a gestire la processione si attivano a raccogliere le palme che condurranno nella loro sede per poi distribuire a ciascuna delle undici confraternite un fascio di palme che servirà all’indomani per la processione.
Esse provvederanno ad allestire un gran fascio di palme con fiori variopinti, datteri e simboli sacri, realizzati dagli stessi artigianalmente utilizzando le medesime palme. A modo di corona saranno sistemate le crocette “d’azoma” cosiddette per il legno con cui si confezionano e che in dialetto gangitano è detto azoma; ad esse è attribuito un potere magico – religioso, assegnatogli solo in quegli anni in cui nel mese di marzo vi sono cinque venerdì. Le palme così addobbate sono riposte in un supporto di legno “a cunocchia” formato da una ruota piena di fori in cui sono introdotti i rami, e da un asse di legno che permette di portarle più agilmente in corteo.
Tutti i confratelli disimpegnati si avviano a preparare i ceri, le insegne e le croci. Nel contempo si dà inizio alla vestizione; essi indosseranno una tunica bianca con addosso un mantello che porterà un colore diverso per ogni confraternita, altri con il classico abitino, ai primi rulli di tamburo che servono come avviso, tutti pronti per la manifestazione. Ad uno dei confrati spetta il compito di portare il “coccumu”, che è il bastone di sostegno del cero con cui è raffigurato il simbolo della confraternita; segue il corteo un grande crocifisso in segno di lutto.
Ogni confraternita sarà accompagnata e preceduta da due “tamburinari” che indosseranno le preziose “rubriche”, antichi abiti settecenteschi ricamati a mano con l’ausilio di fili d’oro e argento.
I rulli di tamburo annunciano l’inizio del corteo che si snoderà per tutte le tortuose e strette viuzze del paese per raggiungere la chiesa Madre, prima tappa della processione, dove le palme portate a spalla dai confrati d’ogni congregazione seguiti dai tamburini, verranno benedette.
Si riparte per raggiungere tutte le altre chiese del paese per poi fare ritorno alla chiesa Madre dove si concluderà la processione, dopo aver assistito alla Santa Messa. Il momento più spettacolare è l’ingresso delle grandi palme sotto gli archi d’accesso della chiesa Madre, accompagnate da una spettacolare ritmica esibizione dei tamburini. Le confraternite, al rientro nelle loro sedi, avranno cura di distribuire le palme benedette ai fedeli.