Tra i vari patroni che il seicentesco senato palermitano annovera nei suoi annali per la protezione della città, ve n’è uno del tutto dimenticato: Sant’Onofrio.

Eppure, per le sue virtù, il 20 luglio dell’anno 1650 lo sancì tale un atto pubblico e, nella festa ufficiale del 12 giugno, si assisteva al gran completo alla Messa solenne ed alle Sacre funzioni.

Il suo venerabile simulacro si onora in un oratorio cinquecentesco sito nell’omonima Piazza S. Onofrio, che porta questo nome per via della vetusta presenza.

Questo luogo altro non è che una depressione del fiume papireto, e vicino alle sue sponde esisteva un’antica cappella dedicata al santo. Prima che l’oratorio fosse trasformato ancora si poteva vedere una fonte d’acqua che scaturiva nell’annesso giardino dove, a custodia, era posta una statua di bottega gaginesca del santo, oggi trasferita presso l’oratorio.

L’oratorio fu costruito nella seconda metà del XVI secolo, per commissione della compagnia che porta lo stesso titolo; il modesto prospetto, che si allunga nel lato settentrionale della piazza, non presenta grossi elementi architettonici. L’interno, una grand’aula più volte rinnovata con l’aggiunta di stucchi e decorazioni parietali, è fornito di un’antioratorio.

Un’importante tela dipinta da Giuseppe Salerno, detta lo “Zoppo di Gangi”, rappresenta la morte di S.Onofrio ad è situata sull’altare maggiore. La chiesa custodisce inoltre alcuni simulacri e arredi del XVII secolo, tra cui un bello scanno in noce per i Superiori, eseguito nel 1617 da Giovanni Calandra, che reca, al centro della tripartitura del tavolo, una scultura in cui è rappresentato un episodio della vita del Santo.

Il Santo, eremita per eccellenza, venne bonariamente chiamato dai palermitani “Santu Nofriu u’ pilusu”, per via della sua lunga barba e dalla folta e maestosa capigliatura che confondendosi avvolgevano tutto il suo corpo, quasi rivestendolo.

Quest’iconografia è raffigurata nel simulacro, che fu scolpito nel 1603 da un palermitano di cui non si conosce il nome ma si sa fosse cieco dalla nascita, il quale eseguì una sorprendente opera d’arte: un gran vecchio rinsecchito con le ossa povere, gli occhi infossati nell’orbita oculare e un fitto cespo di peli, in posizione eretta con le mani congiunte dalle quali pende una corona con grossi grani: Un’aureola cesellata d’argento, posta sul capo, dandogli un aspetto forse poco gradevole alla vista ma dai grandi poteri di pronubo e dispensatore di grazie d’ogni genere.

Riferisce il Pitrè che, anticamente, le ragazze in cerca di marito, per nove giorni di seguito dovevano recitare in ginocchio, tutte le sere, la seguente litania:

Santu Nofriu lu pilusu

Sant’Onofrio peloso

iu vi prego di ccà gliusu
io Vi prego da quaggiù

vui na grazia m’ati a fari
voi una grazia mi dovete fare

un maritu m’ati a truvari
un marito mi dovete trovare

Alternando il tutto con Ave Maria e Paternostro, contemporaneamente bisognava conficcare una monetina di due centesimi in una porta qualunque, prima che finisse la novena. Se la monetina fosse caduta, la grazia si poteva ritenere esaudita. Tale rito nasce dalla tradizione che la confraternita, creata nel dicembre del 1548, come attestano i Capitoli d’appartenenza, in occasione della festa del Santo, il 12 giugno, soleva celebrare le nozze solenni di due giovinette alle quali il sodalizio assegnava la copiosa dote di 15 onze.

Da questa tradizione il popolino poneva come intermediario il Santo affinché le ragazze trovassero marito. Ma S. Onofrio è ritenuto anche il Santo “delle cose perdute”, e tutti vi si rivolgono per ottenere oggetti d’oro smarriti, salute e lavoro ma soprattutto serenità in famiglia.

La Compagnia è la più antica della città e fu costituita da 72 “fratelli”, in riferimento ai discepoli di Gesù Cristo, e da 12 sacerdoti, in memoria degli Apostoli. Nel giorno della solennità del glorioso S.Onofrio si espone la sua reliquia, contenuta in un’urna d’argento ghirlandata: essa consiste in un pezzetto d’osso del cranio del Santo.

Fu regalata nel 1591 da Don Francesco Bisso, e l’Arcivescovo d’allora, Don Diego Ajedo, diede licenza di poterla trasferire dal monastero dello SS. Salvatore in quest’oratorio. A tutti quelli che si associavano concesse 40 giorni d’indulgenza.

La vita del Santo asceta fu travagliata fin dalla nascita. Egli, figlio di Teodoro, re persiano vissuto nel III secolo, fu definito da San Girolamo che ne conobbe il vita patrum: il “Prodigio del deserto”.

Rinunciò al trono per ritirarsi in un convento egiziano, conducendo una vita rigorosissima. Desideroso poi di maggiore solitudine si allontanò nel deserto dove visse 60 anni nel più assoluto ascetismo.
Non se n’ebbero più notizie finché Pafnunzio lo trovò casualmente, e temette di scambiarlo per un animale per via della sua massa pelosa.

Lo confortò negli ultimi momenti, lo seppellì e portò notizie della sua vita a Roma dove, in onore del Santo, fu costruita una chiesa. La morte si fa risalire probabilmente ai primi anni del V secolo.

Tutto questo è rappresentato in quindici tavole della metà del XVI secolo, che la confraternita fece eseguire da un ignoto pittore siciliano. Le tavole raccontano la vita del Santo e sono conservate tra i suoi oggetti preziosi.

Il simulacro ogni anno è portato in processione per le vie del quartiere Capo. Dopo la solenne celebrazione eucaristica e l’esposizione della reliquia per la venerazione e bacio pubblico, i confrati che per l’occasione indossano l’abitino bianco con bordi neri e galloni dorati, trasportano il fercolo del Santo miracoloso presso la pia gente.

La processione di solito si svolge a metà giugno e si snoda per le strade del rione partendo dal vecchio oratorio.

Note: nel febbraio 2004 in occasione del restauro della statua duecentesca del Santo è stata organizzata una grande festa cittadina. Tutte le informazioni presso la confraternita.

Di seguito le foto e i video della grande processione del giugno 2008.

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