Esatto contrario di Selinunte, labirinto di rovine, Segesta – la sua antica rivale elima – si propone come assenza, nella quale emergono, ai lembi opposti del monte Barbaro (poco più di 400 metri sul livello del mare), due magnifiche “cattedrali”: il tempio dorico e il teatro. Anche se, negli ultimi tempi, un’importante campagna di scavi ad opera della Soprintendenza di Trapani ha portato alla luce, nei pressi del teatro, cospicui resti dell’antica città. A quattro km da Calatafimi, al termine di una breve strada in salita, e ad ovest dell’antico abitato, il grande tempio si offre solitario nella sua imponenza aristocratica. Perfettamente conservato, non fu mai portato a termine, non si sa perché: se deliberatamente, per motivi legati a un culto indigeno sconosciuto, o – più probabilmente – per la minaccia di un incombente pericolo. L’interno, a ciclo aperto, specie nelle giornate di primavera risuona dell’eco del canto dei grilli, ed è penetrato da una luce sfolgorante tagliata dalle colonne che incrociano le loro ombre sul terreno. Gli studiosi lo attribuiscono ad un abile architetto greco, e qualcuno ha detto che “gareggia col Partenone nella sottigliezza delle sue raffinatezze”.

All’estremità orientale, sulla cima più alta del monte Barbaro, che si può anche raggiungere a piedi dopo una salita di una ventina di minuti, il teatro greco. Conchiglia sospesa nel vuoto, rivolta verso nord, di fronte al monte Inici e in direzione del golfo di Castellammare, del quale si intravede, nelle giornate terse, l’orizzonte marino, questo gioiello architettonico gode di una posizione impareggiabile. D’estate, l’Azienda per l’incremento turistico della Provincia di Trapani, vi allestisce spettacoli teatrali di successo, tratti dai grandi commediografi latini. Risalente alla seconda metà del II secolo a. C, ma rimaneggiato dai Romani, poteva contenere 4.000 spettatori; la cavea è eccezionalmente ricavata nelle pendici della collina e in parte sostenuta da un muro di contenimento a blocchi; venti le gradinate superstiti, divise in sette cunei; l’orchestra era dotata di un passaggio sotterraneo e di una scala che permetteva agli attori di sorprendere gli spettatori, sbucando fuori all’improvviso; doveva esserci una parete scenica riccamente ornata con pilastri e colonne, laddove oggi, nello scenario della vallata digradante, tra pietre e arbusti, si nascondono e riappaiono gli attori. Con Erice ed Entella, Segesta (o Egesta) fu uno dei tre centri principali del popolo elimo e divenne anche il più potente, oltre che famoso per le sue sorgenti solforose e curative. Molto di quello che sappiamo della sua storia riguarda le continue liti con Selinunte per i confini segnati dal corso superiore del fiume Mazaro. Oggetto sovente di contesa tra Greci e Cartaginesi, si alleò con gli uni o con gli altri secondo i momenti e le condizioni di forza. In realtà, la posizione di Segesta era tale da poter essere messa facilmente sotto scacco, e il suo destino fu ingloriosamente segnato dalla sua debolezza. Così, la troviamo con Cartagine nel VI secolo; poi, dopo la battaglia di Himera del 480 a. C, con Atene. Fallita miseramente la missione ateniese contro Siracusa, chiamò in aiuto Cartagine, che distrusse Selinunte e assorbì del tutto Segesta. Fu assediata da Dionigi di Siracusa, e poi – sconfitti i Cartaginesi – presa da Timoleonte e successivamente da Agatocle. Si unì a Pirro nel tentativo di liberare i Greci di Sicilia, ma quando egli si ritirò, ricadde sotto il giogo di Cartagine. Fu prospera con i Romani. Scomparve nell’alto Medioevo dopo la distruzione e il saccheggio dei Vandali.

Due monumenti spettacolari

Segesta, arroccata sul monte Barbaro, rappresentava la più importante tra le città elime, punto di riferimento non solo degli Elimi stessi (popolazione probabilmente composta da indigeni e da genti straniere), presenti anche ad Entella e ad Erice, ma anche dei Punici, attestati nella parte occidentale dell’Isola e impegnati a contenere le mire espansionistiche di Selinunte. Secondo la tradizione, il nome deriva dalla ninfa Egesta che aveva dato ospitalità ad Enea durante le sue peregrinazioni, e Tucidide suggerisce che in realtà gli Elimi erano Troiani fuggiti dalla loro patria, ai quali si aggiunsero dei Focesi. Nonostante il sito della città antica fosse stato identificato già dal Fazello, sin dal XVI secolo, la fama di Segesta è sempre stata legata al tempio dorico e al teatro; solo a partire dal 1987, le ricerche hanno iniziato ad individuare la conformazione della città nelle varie epoche storiche. L’abitato arcaico era costituito da abitazioni, in parte scavate nella roccia, disposte su terrazzamenti artificiali lungo le pendici del monte Barbaro e disponeva di un complesso sistema di fortificazioni con porte urbiche per lo più del tipo a corte interna. Sull’altura occidentale, intorno alla metà del V secolo a. C., all’epoca cioè delle aspre contese tra Segesta e Selinunte, venne innalzato, sui resti di una costruzione più antica, il tempio dorico, uno degli esempi più notevoli e meglio conservati della Sicilia. La costruzione, dalle dimensioni monumentali, con sei colonne sui lati corti, si presenta priva di celia e di copertura, probabilmente perché mai completata, come testimoniano anche le colonne senza scanalature, i blocchi dei gradini non scalpellati e gli abachi incompleti. Il tempio è l’espressione della rapida ellenizzazione della città, elima per tradizione e cultura, ma che ben presto adottò modelli greci per la costruzione degli edifici più importanti e rappresentativi. Anche il santuario indigeno in contrada Mango, databile agli inizi del VI secolo a. C, fu infatti realizzato sotto l’influenza greca: un témenos, il grande recinto sacro, racchiudeva le costruzioni sacre, pertinenti a più strutture, e probabilmente venne abbandonato sin dal V secolo a. C..
In età ellenistica Segesta assunse un aspetto fortemente scenografico. L’acropoli sud era occupata quasi esclusivamente dall’edilizia privata a carattere residenziale con case di un certo rilievo, come la casa cosiddetta del Navarca, per la presenza di tre mensole a forma di prua di nave, databile al II a. C – inizi I a. C. Sull’acropoli nord trovavano sede i grandi edifici pubblici, tra i quali l’agorà (individuata nell’attuale piazzale di parcheggio) e il bouleuterion, entrambi compromessi dal successivo insediamento di età medievale. In questo contesto trova logica collocazione il celebre teatro costruito tra il III e il II secolo a. C in posizione dominante e rivolto verso nord sul paesaggio delle colline circostanti e del mare. Era dotato di una struttura scenica con due padiglioni laterali decorata con pilastri, colonne e telamoni raffiguranti il dio Pan. Le recenti indagini hanno inoltre individuato, nella parte superiore della cavea, un ulteriore settore che certo doveva rendere il teatro molto più ampio rispetto all’immagine attuale.
La viabilità di Segesta aveva un andamento tortuoso che in parte seguiva le linee segnate dalla base delle terrazze artificiali ed era attestata su alcuni assi principali, uno dei quali, forse l’arteria maggiore, correva in direzione est-ovest. Tra la fine dell’età repubblicana e la prima età imperiale si può ascrivere la cinta muraria superiore, intervallata da tredici torri quadrangolari e da due porte urbiche. L’antica città dovette subire, durante il periodo romano imperiale, un lento e progressivo declino, fino ad essere abbandonata nel corso del VI secolo d. C. È solo agli inizi del XII secolo che la cima settentrionale del monte venne rioccupata da un nucleo di popolazioni musulmane, come testimoniato dalla scoperta di una grande moschea, la prima rinvenuta in Sicilia, caratterizzata da una pianta rettangolare, ricoperta da un tetto a spioventi sorretto da quattro colonne.
Verso la fine del XII secolo l’arrivo di un feudatario cristiano è attestato da un castello a torre articolato su due livelli, costruito nel punto più alto del sito, e da una chiesa a tre navate terminanti ad absidi con spazio antistante occupato dal cimitero cristiano; ed è proprio in questa epoca che la moschea venne probabilmente demolita. La fase feudale è caratterizzata da una forte espansione dell’area abitata e dal generale incremento qualitativo della vita materiale. Intorno alla metà del XIII secolo, il villaggio e il castello furono abbandonati e mai più rioccupati. Soltanto nel XV secolo venne costruita dagli abitanti di Calatafimi, ai piedi del castello, una piccola chiesa dedicata a San Leone.

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